Gli Stati Uniti sono stati, per tutto il Novecento, il modello di capitalismo che ha esercitato un’indubbia egemonia su scala mondiale, anche se ha sempre dovuto contrastare come possibili alternative il cosiddetto modello renano e, solo a partire dagli anni Settanta, quello giapponese. In Europa, le esperienze di welfare state – il riconoscimento del potere sociale esercitato dai sindacati – hanno svolto un ruolo di assoluta alternativa a quanto accadeva al di là dell’Oceano. Anzi, si può dire che Keynes abbia avuto maggiore consenso a Parigi, Bonn, Londra, Stoccolma e Roma che non a Washington.

Il Giappone, invece, ha presentato modelli organizzativi dell’impresa e del governo della forza-lavoro, ponendo in discussione l’organizzazione scientifica del lavoro che ha avuto il suo apogeo proprio negli Stati Uniti, presendando il just in time e il toyotismo come opzioni preferibili di pianificazione produttiva in un mondo sempre più interdipendente, perché rendevano flessibile la fabbrica alle variazioni del mercato in settori «maturi». In ogni caso, gli Stati Uniti quell’egemonia l’hanno utilizzata per rendere irrilevanti l’alternativa europea e giapponese. Nelle scienze sociali, tale tensione e competizione tra modelli di capitalismo sono state ampiamente segnate dalla discussione sulla possibilità o meno che negli Stati Uniti fosse attuabile lo sviluppo di un forte movimento socialista. Come è noto, Werner Sombart e Max Weber hanno sostenuto che nel paese dei «padri pellegrini» non c’era molto spazio per la crescita e l’affermazione di forti partiti operai.

Una tesi che ha condizionato non poco il marxismo europeo, che ha frequentemente liquidato le vicende del movimento operaio statunitense come irrilevanti, sottolineando il suo anticomunismo e la sua subalternità al capitale.

Il volume presentato in queste pagine ha il pregio di ridimensionare tale attitudine liquidatoria, facendo emergere invece un secolo di forti e radicali conflitti operai e una prassi teorica che ha messo a tema lo studio del capitalismo monopolistico e, più recentemente, una critica del postmoderno. A questi due campi tematici il volume dedica importanti saggi, tesi a rendere evidente come negli Stati Uniti la presenza di un forte, seppur sotterraneo flusso di pensiero critico c’è sempre stato, arrivando a manifestarsi in maniera carsica nelle Università e nella produzione culturale. Certo c’è da dire che in Europa e in altre parti del mondo, gli Stati Uniti siano stati spesso analizzati come un paese che esercitava un’egemonia politica e economica, che lo rendeva quasi immune dal contagio del marxismo.

La storia del Novecento attesta tuttavia un’altra realtà. Di autori che invece hanno influenzato il marxismo eretico ne sono pieni gli scaffali. Ovviamente, il riferimento è a riviste presigiose come la Monthly Review, a economisti come Paul Sweezy, all’influenza esercitata da Paul Mattick, all’incontro delle scienze sociali con la teoria critica di Francoforte e all’influenza di autori come Friedrich Pollock nell’analisi dei processi di automazione del lavoro operaio, della presenza di una corrente culturale di matrice trotskista: Daniel Bell, autore del saggio sul cosiddetto capitalismo postindustriale, ad esempio non ha mai nascosto, agli inizi della sua carriera di ricercatore sociale, le sue simpatie per Trotski; lo stesso vale per James Burnham, autore de La Rivoluzione Manageriale, dove individuava nei manager il settore sociale egemone nella borghesia americana dopo il divorzio tra proprietà e gestione dell’impresa capitalista.

Ma è con il Sessantotto che il marxismo statunitense riesce a superare gli angusti confini in cui era stato confinato. Vengono pubblicati gli scritti di William Edward Burghard Du Bois dove la «questione razziale» viene interpretata alla luce delle differenze di classe della società americana, mentre il nome di Immanuel Wallerstein diviene familiare per chi nel Nord e nel Sud del pianeta sviluppa un’analisi del capitalismo globale. Da allora esponenti di una prassi teorica che esplicita il suo debito con il marxismo si moltiplicano. Nel volume sul capitalismo americano e i suoi critici sono infine presentate le opere di Fredric Jameson sul postmoderno, di David Harvey sul capitalismo neoliberista, nonché gli scritti di Giovanni Arrighi, collaboratore di Wallerstein che ha scritto gran parte dei suoi saggi negli Stati Uniti. Libri che rivelano una capacità innovativa del marxismo statunitense, tuttavia inversamente proporzionale alla sua capacità politica. Un marxismo che alcuni hanno qualificato come accademico, per la sua capacità di condizionare la produzione culturale, ma incapace di sviluppare una egemonia politica nei movimenti sociali.