il manifesto del 5 novembre 1993

Al suono del Dies irae di Mozart, «radio parolaccia» riprende le sue trasmissioni. Dal 28 ottobre radio Radicale, di nuovo alle prese con insormontabili problemi economici, ha interrotto le dirette dal parlamento e il resto della sua programmazione per affidarsi all’eloquio torrenziale di venti segreterie telefoniche.

Sono sempre accese allo (06) 48.66.55 (ma trovare la linea libera è molto difficile) e al grido di «la parola alla gente», vengono rimandate in onda senza filtri, secondo il modello di quello che già nel 1986 fu uno dei più sconvolgenti esperimenti mediologici italiani.

Ne è passato del tempo, da allora. Ci sono state le telepiazze e le teleurlo, la parola alla gente è stata evocata e sollecitata da tutti i tubi catodici della nazione. Eppure, la prima impressione di fronte al nuovo stralunato e torrenziale sfogo interpretato dalle voci di tutt’Italia è che non sia successo proprio niente.

I desperados dell’etere, che non hanno incontrato mai uno straccio di conduttore a passargli un microfono, si sono dati appuntamento ancora tutti qui. Nord contro Sud. Sud contro Nord. Chi ce l’ha più duro? Ultras e nazi skin, soprattutto. E poi leghisti, amici del bar, 1 3enni timidi, vecchietti scandalizzati, cantautori senza futuro e altri sfigati della terra. «Sono Gianni Nardi», proclama come se niente fosse una voce sinistra. «’Sta trasmissione fa schifo al cazzo – taglia corto un altro – e i milanesi so’ tutti bastardi». Una ragazzina ridacchia: «Enrico mi hai rotto le palle, sei troppo geloso». Un altro sceglie la via del cabaret alla buona: «Attenzione attenzione, urge trasfusione di sangue infetto alla famiglia Poggiolon de’ Poggioloni». Ragazzi di stadio: «Lazio merda, Lazio merda». Ragazzi all’ultimo stadio: «Chiamo da una città che non ha nome, sono molto giù, sto molto male. Aiutatemi». «I cittadini riuniti in comitati antiquinamento… ».

Linea allo studio: «La sensazione di violenza è molto minore di quanto accadde nell’86 — azzarda il direttore dell’emittente Massimo Bordin — Continua la controversia nord-sud, diciamo così, ma sembrano molto depotenziate alcune pulsioni… È come se prevalesse l’aspetto giocoso in tutto questo». Bordin ha ragione.

La ripetizione di un’esperienza che all’epoca fece toccare con mano a qualcuno il sorgere del leghismo ha in sé qualcosa di inevitabilmente prevedibile. Eppure, anche oggi che la Lega è sorta da un bel pezzo, almeno l’effetto radiofonico della cosa resta fortissimo: il montaggio casuale delle voci regala alla non stop strepitosi effetti comici, e il fatto che i tenitori della privacy telefonica siano improvvisamente invasi e rovesciati in pubblico dà parecchio pepe alla cosa.

È il telefono, più che la televisione, a essere cambiato in questi anni: «radio pa rolaccia», oltre che dei graffiti nei cessi, si scopre così ignara parente delle linee erotiche e delle party line che oggi vanno per la maggiore.

Voce maschile, giovane: «Saluto la mi’ regazza, Sonia. Me so’ rotto il cazzo dei padroni. Forza Roma». «Ritengo che dovreste mettere un filtro alle telefonate», si arrabbia uno. Graffiti: «Puzzolenti del nord, crepate tutti bastardi». «Fatevi le canne». «Leoncavallo sporchi, drogati, zozzoni. Evviva Hitler». «Voglio dedicarvi un walzer di Strauss». «Avete fatto la cacca?». «Viva il comunismo». «Grazie, vaffanculo». Psicanalisi: «Sono solo bambini, alla fase anale». E canzoncine, filastrocche, urla belluine in allegra compagnia. Pierlugi Baglioni, scrittore in Zoagli: «Questi epigrammi di tanti Marziale di borgata mi ricordano i libri di Aldo Busi. Perché la Mondadori li pubblica, e non pubblica invece i miei? Questi sono i bei risultati…». Un altro ascoltatore non si spreca: manda una registrazione di Mussolini, fino allo scoccare del fatidico minuto a disposizione.

Nessuno sa per quanto andrà avanti la non stop. È cominciata rimandando in onda le telefonate dell’86, e contemporaneamente invitando gli ascoltatori a ripetere il gioco. Una settimana dopo Radio Radicale si è attrezzata con venti segreterie telefoniche e un computer che le conta e le scheda.

Denuncia così a modo suo la situazione di incertezza che regna nell’etere, con una legge di assegnazione delle frequenze ancora fantasma e la questione aperta delle «dirette dal parlamento»: tutti le vogliono, gli stessi parlamentari fanno grandi elogi al lavoro dell’emittente, ma nessuno si muove per dare alla cosa un carattere minimamente «istituzionale», come meriterebbe.

Proprio per questo suo carattere di «servizio pubblico» durante l’ultima crisi la radio spuntò un finanziamento pubblico straordinario. E per il momento si è guadagnata soltanto un bel po’ di attestati di solidarietà, con il gusto di aver dato la voce a quello che un comunicato ripetuto ogni mezz’ora chiama con stupefacente serietà il «popolo sovrano». 15.900 telefonate alle diciotto di mercoledì, in crescita esponenziale per il più inimitabile dei «freak show» italiani.