«Macedonia! Macedonia!” Sono queste le esclamazioni ricorrenti nel campo improvvisato di Idomeni da alcuni giorni. E mentre parlano mostrano i lividi sul corpo, le fasciature alle mani e sulle gambe: i segni lasciati dalla polizia macedone su alcuni dei 2 mila migranti che sono riusciti ad attraversare il confine greco-macedone guadando il fiume Suva Reka il 14 marzo.

Mohanad, 23 anni siriano, era tra di loro. «Pensavamo di avercela fatta. Ma improvvisamente siamo stati circondati dalla polizia macedone che ha cominciato a malmenarci. Ci hanno preso a calci e ci hanno picchiato con i bastoni elettrici», dice con la rabbia negli occhi e la voce spezzata. Ha due costole rotte e fa fatica a respirare senza provare dolore. Oltre alle costole rotte ha riportato contusioni sulle gambe e ha una mano fasciata a seguito delle ferite riportate. Liam, 24 anni, anche lui siriano, ha riportato ferite più gravi. La polizia gli avrebbe completamente sfondato lo sterno a calci. Dopo essere stato riportato a Idomeni è stato trasportato all’ospedale di Salonicco dove è stato ricoverato per sei giorni. «Ovviamente noi non abbiamo visto le violenze, ma abbiamo sicuramente visto le ferite, i lividi» afferma Jonas Hagens, portavoce di Medici Senza Frontiere (MSF).

Secondo la ricostruzione di Jonas e dell’infermiera italiana Daniela Uberti, anche lei a Idomeni assieme a Msf, nella notte tra venerdì e sabato 13 persone sono arrivate alla clinica del campo per essere curati. Hanno raccontato di aver attraversato il confine e di essere stati catturati dalla polizia macedone. Questa li avrebbe prima derubati e, dopo averli pestati, li avrebbe riportati in Grecia. La scena si è ripetuta la notte seguente quando altre 35 persone sono state curate dai medici e dagli infermieri di Msf tra cui Daniela. Nelle due notti, 6 persone sono state portate in ospedale per «sospette fratture».

«Ci hanno detto di aver ricevuto delle bastonate a livello delle braccia e delle gambe, presentavano dei tagli a livello delle mani perché dicevano di essere stati spinti sul filo spinato e avevano anche segni di morsi perché gli hanno aizzato i cani contro», spiega Daniela. «Sembra di essere in un ambulatorio vicino ad un fronte. Non mi era mai capitato di ricevere così tanti feriti tutti insieme. Siamo in un Paese dove non ci sono bombe, non ci sono guerre. Eppure tutto questo disastro umanitario è semplicemente causato da un muro che è chiuso» continua l’infermiera italiana.

La violenza della polizia macedone contro i migranti è ben conosciuta alle organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani e avveniva anche prima del 9 marzo 2016 quando le autorità di Skopje hanno deciso la chiusura definitiva della frontiera. In un report di Amnesty International pubblicato la scorsa estate si legge: «Al confine della Macedonia con la Grecia, i rifugiati sono regolarmente soggetti a respingimenti illegali e maltrattamenti ad opera della polizia di frontiera». Nelle 72 pagine del documento si fa menzione alle detenzioni arbitrarie di migranti, all’estorsione di denaro, ai pestaggi e ai respingimenti forzati senza avere la possibilità di fare richiesta d’asilo. Tutte azioni illegali secondo le leggi internazionali sancite dalla Convenzione sui rifugiati del 1951 e dal Protocollo del 1967.

In particolare, un rifugiato afghano ha raccontato ad Amnesty International di aver visto persone picchiate selvaggiamente dalla polizia. Anche a Idomeni si trovano migranti che portano i segni delle percosse avvenute mesi fa, quindi prima della chiusura totale della frontiera greco-macedone. Tre ragazzi marocchini dicono di essere arrivati in Serbia pochi giorni prima che l’Ungheria cominciasse i lavori per la costruzione di un muro di filo spinato sul confine con la Serbia nel luglio dello scorso anno. Sul treno sono stati catturati dalla polizia Serba che li ha riportati in Macedonia. Lì, sono stati tenuti diversi giorni in prigione dove sono stati picchiati e derubati. Ora si trovano lungo i binari del treno ai confini del campo di Idomeni. Sanno che non hanno alcuna possibilità di richiedere la protezione internazionale, ma non si arrendo: «Troveremo altre vie, magari dall’Albania» conferma Mohamed, 27 anni di Marrakech.