Ingabbiati a un passo dalla “rotta balcanica” verso l’Europa. Inchiodati nella campagna che prima sfamava gli agricoltori locali. Indiavolati perché alimentano soltanto la forza della disperazione.

Nei giorni scorsi i migranti del campo di Idomeni hanno replicato inutilmente le proteste sul binario morto del confine macedone: la nuova tensione è prodotta anche dall’annunciato arrivo di altri bus per trasferire i “volontari” con passaporto siriano in strutture più piccole, ma con accesso interdetto a giornalisti e ong. E ieri in oltre 200 hanno invaso l’autostrada, a una ventina di chilometri dal campo: per sollecitare il loro sospirato “lasciapassare” verso Skopje hanno bloccato le merci viaggianti di tir, camion e furgoni sull’asfalto greco.

Idomeni è diventata la succursale di Damasco (ma anche di Baghdad, Kabul, Kobane). Da lontano, sembrerebbe un mega-camping. Dentro, c’è un lager a cielo aperto. L’inferno dell’Europa senza memoria, coscienza, vergogna. L’elicottero non sgancia bombe chimiche. Il pick up viaggia senza mitragliatrice sul pianale. E la voce roca del muezzin non invoca il califfo, il sultano o l’emiro. Ma il campo profughi è davvero lo sconfinato limite di un’umanità costretta oltre l’incredibile.

Idomeni è la catastrofe di Bruxelles e insieme lo spettro di un esodo altrettanto biblico. Buco nero dei diritti umani non negoziabili, missione impossibile di centinaia di volontari internazionali, specchio aggiornato di guerre e terrorismi. Una bolgia maledetta. E il gorgo di Idomeni restituisce souvenir da scandalo. Poliziotti in assetto di guerra scattano selfies con i profughi ammassati al confine della Macedonia. Disabili in carrozzina, bambini soli, mutilati di guerra (magari con un tubo al posto della protesi) vagano nella tendopoli. Un gruppo assalta il camion con i viveri rimasto isolato; altri uomini con le corde recuperano pigne e spezzano rami dagli alberi; nelle stalle dell’ormai ex centro veterinario si rassetta il tappeto di paglia davanti alla “casa” in poliestere formato igloo.

Eppure, alla vigilia di Pasqua qui è perfino nata una bambina: figlia di curdi in fuga da Kobane, frutto del parto di fortuna, il primo in assoluto nel campo dopo i quattro all’ospedale di Kilkis. Qui Michael Grossenbacher, cabarettista di Berna, si deve improvvisare medico nelle pause della raccolta di firme con cui vuole “rappresentare” i profughi in Svizzera. E Sabrina Yousfi della coop Alternata Silos è partita da Minturno (Latina) per verificare di persona la vita dei “fantasmi” di Idomeni.

Soltanto nel campo principale – che si snoda dai binari al bosco, dai grandi tendoni di Medici Senza Frontiere fino ai piedi del piccolo paese – le ultime statistiche Unhcr contabilizzano 11.324 persone (su 51.430 presenti in tutte le strutture di accoglienza dell’intera Grecia). Più del 60% sono donne, bambini e minori non sempre insieme al resto della loro famiglia. Metà della “popolazione” arriva dalla Siria con una nutrita presenza dall’Afghanistan, ma anche da Pakistan e Iraq.

Dall’alba al tramonto, il tempo si consuma in fila. Occorre mettersi alle spalle di chi aspetta la distribuzione dei pasti o di una bevanda calda, pazientare davanti alle “ciabatte” dell’elettricità, attendere il turno per inseguire una connessione wi fi, rimettersi in fila alla ricerca d’informazioni o medicine. E ogni giorno ricomincia il “presidio” di fronte alla gabbia metallica che sbarra il passo, con la vana speranza di attraversare la frontiera, a beneficio delle tv in diretta satellitare.

Nel girone infernale, un paio di famiglie allargate curde insegue le note del kopuz pizzicato con nostalgia. «Non possiamo tornare indietro, tanto meno in Turchia. E nemmeno procedere. L’Europa ci ha abbandonato qui» chiosa sconsolato il più anziano.

È il destino amaro di chi dall’estate accarezza l’approdo in Germania o Svezia e si ritrova truffato soprattutto dal “lasciapassare”, foglio in caratteri incomprensibili rilasciato a nome del governo di Atene. È stato tradotto come il visto d’ingresso europeo. Ma i vertici Ue hanno preferito conciliare Tsipras e Erdogan senza tanti complimenti. E quel pezzo di carta sgualcito non servirà, nell’ultimo pertugio che si schiude forse nella sponda albanese del lago Prespa.

Ai ragazzi basta un pallone per sfogarsi in mezzo all’erba o accennare la sfida a volley senza rete. I più piccoli si accontentano di un girotondo, saltare nello “scalone” abbozzato sull’asfalto, rincorrere il clown con l’ombrello. Tutti disegnano inesorabilmente aerei che bombardano, troppi morti e tanto sangue. Nessuno va più a scuola da mesi, mentre inizia a serpeggiare non solo la varicella.

Ai margini del mega-accampamento, l’acqua è un miraggio. Dhaki, giovane meccanico fuggito dalla regione di Daraa accenna pudicamente alle cicatrici nella spalla sinistra. Siede davanti al bricco di caffè. I bambini di 4 e 2 anni saltano davanti alla tenda. La moglie, incinta del terzo figlio, capisce bene l’inglese e spiega: «Abbiamo preso i bambini, attraversato la Siria e raggiunto le isole greche. Era impossibile restare fra l’assedio di Isis, le bombe dal cielo e il caos totale. Ma non possiamo restare così ancora a lungo».

L’inferno di Idomeni brucia tutto. Stracci, plastica, rifiuti alimentano i fuochi della miseria quotidiana. E le “cucine” (quanto le “stufe”) restituiscono con la cenere l’inconfondibile odore di Seveso, Marghera o Taranto. Gli “spazzini” volontari arrancano per cercare di garantire il livello minimo d’igiene pubblica. E staff attrezzati di sanitari arrivati da mezzo mondo si dannano l’anima per scongiurare il peggio. Ma al buio, nei ruderi o nelle coltivazioni abbandonate si annida ogni indicibile diavoleria. La disperazione nutre il bazar delle infamie.

Una donna siriana che rivendica la fede sunnita spinge la carrozzina con l’ultima figlia di otto mesi. Intorno ruotano altri tre bambini, mentre il marito è in fila da qualche parte. Parla con un filo di legittima rabbia agli interlocutori che aspettano la traduzione: «Assad è un ateo che usa la guerra civile per fare pulizia etnica. Daesh e alQuaida fanno strage anche dell’islam. Sul gommone ero terrorizzata come in Siria, cercando di tenere la più piccola sollevata sulla mia testa. Ero pronta a morire, purché loro quattro si salvassero. Sono ancora terrorizzata, perché la nostra famiglia non ha più certezze».

Poi con gli occhi lucidi saluta il giovane interprete arabo: riprende a camminare con i quattro figli dentro un intollerabile recinto a perdita d’occhio. Lui abbassa la testa, si copre la faccia, sospira. E non parla più.