Dopo dieci anni di assenza, Idomeneo di Mozart è tornato al Teatro alla Scala di Milano, diretto da Diego Fasolis, che sostituisce il rinunciatario Christoph von Dohnányi. La regia è di Matthias Hartmann, la drammaturgia di Michael Küster, le scene di Volker Hintermeier, i costumi di Malte Lübben, le luci di Mathias Märker e le coreografie di Reginaldo Oliveira.

Del libretto di Giambattista Varesco, che del glorioso modello metastasiano assume i cliché drammaturgici restando impermeabile alla sua rigorosa chiarezza, Küster dà una bella lettura nel libretto di sala dell’opera, riconducendo il trionfo finale della coppia giovane e spuria Idamante(greco)-Ilia(troiana) sulla figura tirannica di Idomeneo alla sensibilità dello «Sturm und Drang», in cui il conflitto padri-figli assume un ruolo centrale, e al concomitante passaggio dalle monarchie di derivazione feudale a quelle illuminate. Peccato che questa analisi resti lettera morta nell’allestimento dell’opera, che risente della stessa schizofrenia che abbiamo già denunciato nella recente Manon Lescaut scaligera.

L’APPARATO scenografico imponente di Hintermeier, a meno dei costumi anonimi di Lübben, resta un contenitore vuoto, così come vuota è l’enorme testa taurina che campeggia al centro della scena rotante a ricordarci inerte che siamo a Creta, unico tentativo di mantenere un legame con i tratti mitologici del soggetto. Lo stesso si dica della regia di Hartmann, che disquisisce velleitario di psicologia e politica nel libretto di sala e poi si limita a lasciar circolare gli attori in palcoscenico, mostrando di non avere un’idea in grado di risolvere drammaturgicamente la complessità del testo.

COSÌ IL TENORE Bernard Richter imperversa nei panni di Idomeneo tre volte spaesato: perché non sa dove si trova e non sa dove andare entro quelle scene inerti; perché dimentica spesso le battute; perché la sua voce non possiede l’agilità necessaria al ruolo. Lo stesso si dica del mezzosoprano Michèle Losier, che dà corpo a un Idamante grottesco nel suo continuo sbracciare e vocalmente poco incisivo. È spaesato persino il coro di Bruno Casoni, che ci ha abituato a ben altre prestazioni.

Fasolis, dal canto suo dirige l’orchestra su strumenti moderni, ma sente il bisogno di giustificarsi asserendo «che si sente il profumo del lavoro che da qualche anno si sta facendo su strumenti originali e con prassi ‘storicamente informate’». Cavilli filologici a parte, un monstrum in cui la prima edizione di Monaco del 1781 viene ibridata con numeri eliminati dal compositore stesso prima del debutto e con tagli del tutto allotri, la direzione è pastosa e sfavillante nel rendere la tensione tra la struttura all’italiana a numeri chiusi e la continuità drammatico-musicale di ascendenza gluckiana con cui Mozart appena venticinquenne spavaldamente si misura.