Tra decine di migliaia di civili in fuga prosegue l’offensiva cominciata alla fine di aprile dall’esercito siriano deciso a riprendere la regione di Idlib, l’unica del paese ancora nelle mani delle formazioni islamiste armate, in particolare di Hay’at Tahrir a-Sham, più nota come Fronte a-Nusra, il ramo siriano di al Qaeda. Il destino della battaglia – nessuno però si aspetta che sia l’ultima di un conflitto che dal 2011 ha fatto mezzo milione di morti – è però segnato. I qaedisti e le altre organizzazioni armate che per cinque anni hanno fatto di Idlib la loro roccaforte, una specie di emirato governato con il pugno di ferro, sono allo sbando. E a soccorrerli non c’è la Turchia, che tanto li aveva sostenuti, e usati, negli anni passati per promuovere la sua agenda in Siria e nella regione. Ankara balbetta, schiacciata tra la sua alleanza con Washington e la necessità di tenere aperto il dialogo con la Russia alleata del presidente siriano Bashar Assad. È incapace, per ora, di reagire all’offensiva lanciata da Damasco che ha messo fine all’intesa raggiunta un anno fa con Mosca che riconosce il controllo della regione da parte di qaedisti e jihadisti sotto la supervisione turca.

L’attacco finale era partito all’inizio di questo mese dopo, ha spiegato Damasco, il mancato rispetto da parte dei miliziani jihadisti dell’accordo di cessate il fuoco, che prevede il ritiro delle armi pesanti dalle prime linee, e gli attacchi alle posizioni dell’esercito siriano e alle aree civili nella vicina provincia di Hama. La svolta si è avuta all’inizio di questa settimana, quando l’esercito siriano, con l’aiuto dell’aviazione russa, ha prima ripreso il controllo di un tratto importante dell’autostrada Damasco-Aleppo, e poi, poco alla volta, della città strategica di Khan Sheikhoun divenuta nota nel 2017 per un “attacco chimico” attribuito dai gruppi anti-Assad all’aviazione siriana e che invece, secondo Damasco, era stato messo in scena per fornire all’Amministrazione Usa il pretesto per attaccare la Siria (una vicenda simile si è avuta a Douma, vicino Damasco, nell’aprile 2018). Le immagini girate ieri da un giornalista di Sputniknews mostravano Khan Sheikhoun deserta con edifici sventrati da bombardamenti e combattimenti, mentre reparti governativi erano impegnati in operazioni di sminamento e di rastrellamento.

La presa di Khan Sheikhoun ha rotto la linea di difesa tenuta dai combattenti jihadisti, molte migliaia ma non coordinati tra di loro. Per l’esercito subito dopo è stato facile liberare altri villaggi e località, anche in aree lontane nella regione di Hama dove commando islamisti continuano da almeno due anni, con attacchi mordi e fuggi, a tenere sotto pressione l’esercito. Nelle ultime 48 ore ore, secondo il Syrian Observatory For Human Rights (vicino all’opposizione), i civili morti nella zona della città di Maarrat Al-Nu’man sarebbero stati 11. Trentotto le vittime tra jihadisti e soldati. Nella città di Tel Mannas sarebbe stato colpito un ospedale. I civili si sentono presi tra due fuochi. Non pochi si preparano a percorrere il corridoio umanitario aperto dai governativi nel villaggio di Suran (Hama). Negli ultimi quattro mesi sarebbero morti circa 500 civili, 1400 jihadisti e qaedisti e 1200 soldati siriani.

Grande la soddisfazione a Damasco e a Mosca. Il Cremlino ha accolto con favore la liberazione di Khan Sheikhoun. «Sin dall’inizio è stato detto che la lotta contro i terroristi e i gruppi terroristici continuerà in ogni zona, in particolare contro i terroristi che continuano gli assalti alle forze armate siriane e alla base [militare] russa a Khmeimim», ha spiegato un portavoce russo provando a giustificare la fine delle intese raggiunte un anno fa che avevano consentito alla Turchia di entrare in territorio siriano e di presidiare militarmente Idlib. Qualche giorno fa un bombardamento governativo ha colpito un convoglio di Ankara facendo tre morti e 12 feriti. Successivamente è stato centrato anche un punto d’osservazione turco. Un «atto di aggressione» secondo il governo al quale però non è seguita alcuna reazione militare.

L’impressione è che il presidente Erdogan sia fermo nell’attesa, il 16 settembre, del summit trilaterale con Russia e Iran ad Ankara, per annunciare la sua ferma intenzione di avviare pattugliamenti congiunti turco-statunitensi lungo la frontiera con la Siria sulla base dell’accordo tra i due paesi, siglato il 7 agosto, per creare una ampia zona cuscinetto nel nord della Siria. Una fascia di territorio che servirebbe ad impedire qualsiasi forma di sovranità curda nel nord della Siria e allo stesso tempo ad accogliere i siriani fuggiti in Turchia e che ora Erdogan vuole rispedire a casa. Ma i piani di Ankara ora non sono di semplice realizzazione. La situazione sul terreno si è fatta ancora più complicata dopo la liberazione di Khan Sheikhun. Era una questione di tempo ed è accaduto: la Turchia si trova faccia a faccia con le truppe siriane. Mai prima d’ora la possibilità di scontro militare tra Damasco e Ankara è stata così concreta.