Un rinnovato cessate il fuoco era stato annunciato da Russia e Turchia la scorsa domenica per la provincia nord-occidentale siriana di Idlib, ultima roccaforte delle opposizioni jihadiste (guidate da al Qaeda, nelle sembianze di Hayat Tahrir al Sham, l’ex al Nusra).

Ma come le tante violate in questi anni anche questa tregua è durata poco. Mercoledì un bombardamento governativo ha colpitola città di Idlib, uccidendo almeno 21 persone. Il raid ha centrato un mercato della verdura e una fabbrica, dicono i Caschi bianchi, una sorta di protezione civile attiva in questi anni di guerra civile siriana nelle zone controllate dalle opposizioni e considerata legata sia ai qaedisti che ai governi sunniti del Golfo, da cui è foraggiata. I morti, dicono, potrebbero aumentare visto l’alto numero di feriti, almeno 82. Altri raid hanno colpito le città di Kafrouma e Bazabour.

La situazione è la stessa dello scorso agosto, un cessate il fuoco fittizio, all’epoca rotto dagli islamisti con attacchi a postazioni governative e a cui sono seguiti rinnovati bombardamenti aerei. Idlib non esce dal tunnel della lunga occupazione jihadista e dei tentativi di Damasco di rimpossessarsi dell’ultimo spicchio di territorio siriano che non controlla dal 2011.

Una situazione che si porta dietro un bagaglio di apparenti contraddizioni, a partire dal matrimonio di interesse tra Mosca, sponsor del presidente Assad, e Ankara, manovratrice affatto occulta delle milizie islamiste, sostenute a Idlib, usate a piene mani nel Rojava a maggioranza curdo e ora mandate a combattere in Libia al fianco del premier di Tripoli Sarraj.

Chi paga il prezzo della guerra infinita sono i civili. Idlib ha visto la propria popolazione moltiplicarsi, da uno a tre milioni di persone, tra sfollati senza più nulla da portarsi dietro e miliziani e loro familiari allontanati dal resto del paese.

Molti civili scappano ancora: ieri l’Ocha, l’ufficio umanitario dell’Onu, ha calcolato in 350mila, soprattutto donne e bambini, il numero di persone in fuga da Idlib dal primo dicembre scorso. La parte meridionale della provincia è pressoché vuota, 750mila gli sfollati totali in nove mesi.

Provano ad andare verso est, ad Aleppo, dove ieri missili jihadisti hanno colpito il quartiere di Al-Sukkari uccidendo sei civili. O verso nord al confine con la Turchia dove la situazione non è migliore, tra campi strapieni e in pieno inverno quasi privi di aiuti.

Dal 9 ottobre scorso l’operazione «Fonte di pace» ha permesso ad Ankara di occupare un corridoio lungo 100 km dentro il Rojava, con la benedizione russa, e di impiantare – al posto dell’amministrazione autonoma curda – miliziani jihadisti e truppe turche, dedite a saccheggi e abusi sui civili.

L’occupazione ha avuto effetti anche sui campi rifugiati e di detenzione per miliziani dell’Isis e i loro familiari. Ieri la Mezzaluna rossa curda ha denunciato almeno 517 morti, di cui 371 bambini, per fame e freddo nel campo di al-Hol, dove vivono 68mila rifugiati e migliaia di familiari di miliziani dello Stato islamico catturati dalle Ypg/Ypj curde.

Abbandonate, non sono più in grado di fornire aiuti, mentre – riporta l’agenzia curda Ahval – la Turchia ha avviato lavori tra le comunità siriane occupate di Ras al Ayn e Tal Abyad dove portare centinaia di migliaia di rifugiati siriani, processo di ingegneria sociale e sostituzione etnica in chiave anti-curda.