Deve essere dura per i comandanti americani stare oggi in Siria a guardare la battaglia dalla finestra.

Siamo infatti alla vigilia all’anniversario dell’11 settembre 2001 e quel che resta di Al Qaeda in Siria, insieme ad altre milizie islamiste e all’Isis, è asserragliato a Idlib. Lì dove combattono siriani, russi, iraniani e milizie sciite.

E invece gli Stati uniti non ci sono e stanno alla finestra.

Che sia la battaglia finale contro il terrorismo c’è qualche tenue dubbio – la storia del Medio Oriente è pronta a smentirci – ma è vero che quanto accadrà sul terreno non lo hanno deciso gli Usa, che 17 anni fa lanciarono la “guerra al terrorismo”, ma a Teheran, nel vertice di ieri tra Putin, Erdogan e l’ospite Rohani, tre Paesi sotto sanzioni americane.

FORSE, COME ha ben sottolineato ieri sul manifesto Michele Giorgio, è un po’ esagerato definire la conferenza di Teheran una Yalta del Medio Oriente.

A Yalta furono stabiliti equilibri che durarono a lungo: a Teheran si è cercato di rassicurare che la Turchia di Erdogan, alleato Nato nel mirino di Trump, non verrà troppo destabilizzata dalle ondate di rifugiati dalla provincia di Idlib, l’obiettivo della riconquista del regime baathista.

GÌÀ: UFFICIALMENTE il Baath è ancora almeno sulla carta il partito siriano dominante.

Non soltanto Bashar al Assad è l’unico Raìs reduce dal sisma delle primavere arabe ma resiste ancora il partito che in Iraq è stato disciolto, insieme alla forze armate, dagli occupanti Usa nel 2003. Chissà come brucia agli americani.

Certamente non è un Baath trionfante, con le sue metamorfosi e spietate derive, ma è interessante notare che da questo partito discende l’attuale gruppo al potere in Siria, contrassegnato sia dall’appartenenza alauita ma anche a un’ideologia socialista e nazionalista fondata negli anni Quaranta in Siria da Michel Aflaq e Salah Bitar, un cristiano ortodosso e un musulmano.

CURIOSO che a mantenere in vita un regime secolarista, ritenuto dalla maggioranza dei musulmani miscredente, siano stati, oltre ai russi, la repubblica islamica iraniana e gli Hezbollah sciiti, ma non dimentichiamo che la Siria fu l’unico Paese arabo nel 1980 a schierarsi con Teheran quando l’Iran venne attacco dall’Iraq con il sostegno finanziario di una vasto fronte arabo del Golfo e dell’Occidente.

Questa la lunga durata e la complessità dei conflitti mediorientali.

AL VERTICE di Teheran Erdogan è dovuto scendere a patti con Mosca e l’Iran, il portabandiera del mondo sciita, lui che si è presentato come il paladino dei sunniti.

Ma ha commesso errori di calcolo esiziali. Ha appoggiato i Fratelli Musulmani, eliminati da Al Sisi in Egitto, ha infilato al confine con la Siria migliaia di jihadisti e pensato di abbattere Assad in pochi mesi.

Ha condiviso questi gravi errori con l’Arabia Saudita, il Qatar, gli Usa della Clinton e di Obama, la stessa Francia e la Gran Bretagna: tutti convinti di eliminare il regime di Damasco con il metodo dello “stay behind”, manovrando da dietro le rivolte arabe.

ANCHE PER QUESTO il vertice di Teheran è una Yalta a metà: l’Occidente non c’è e non ci può essere perché ha perso questo round insieme ai suoi ricchi alleati arabi.

Nell’antico gioco dei tre imperi – russo, persiano e ottomano – è proprio il Rèìs turco a dovere inghiottire la pillola più amara: la permanenza a Damasco di Assad di cui era un tempo amico e alleato.

Erdogan deve accontentarsi di avere schierato le truppe e le milizie arabe filo-turche nel cantone di Afrin spezzando così la continuità del Rojava curdo-siriano, il territorio più vasto della Siria oggi non controllato direttamente da Assad e che è stato il baluardo a Kobane della resistenza all’Isis di Al Baghadi.

È FIN TROPPO evidente che la spartizione della Siria è in buona parte compiuta ma non del tutto.

Gli Stati uniti non se ne vanno dal Nord, dove fanno da cuscinetto tra Erdogan e i curdi, il vero incubo strategico di Ankara.

Non solo: a nord di Raqqa gli americani hanno aperto una prigione con centinaia di detenuti, una sorta di nuova Abu Ghraib, non ancora tristemente famosa come quella irachena.

Israele continua a stare sulle Alture del Golan che occupa dal 1967 e non ha nessuna intenzione di lasciare spazio a una penetrazione iraniana.

Putin su questo fronte può fare promesse assai limitate sia all’Iran che alla Siria: il premier Netanyahu è il leader straniero che più di tutti in questi anni è entrato al Cremlino.

E i patti tra Putin e Netanyahu, soprattutto per aggirare le sanzioni Usa, non sono stati certo discussi a Teheran.

LA SIRIA è una sorta di Jugoslavia del Medio Oriente dove con costi umani terribili è fallita la frammentazione ma dove continuerà ad agire la balcanizzazione, un giorno in Siria, un altro in Iraq, un altro ancora in Kurdistan, lavorando su frustrazioni, ingiustizie, memorie sanguinose, rivendicazioni, profughi e radicalismi: all’orizzonte non c’è una Yalta e ancora meno una Sykes-Picot, come pensavano a Washington qualche anno fa.

È una seconda guerra mondiale a pezzi, come ebbe a dire il Papa, dove però non c’è ancora un dopoguerra.