Per una coincidenza che ha mosso in me passioni, affetti, domande, ho vissuto due occasioni in cui si è parlato della persecuzione degli ebrei. La Shoah è qualcosa di impensabile, indicibile, eppure credo che dobbiamo continuare a pensarla e dirla. Dircela.

Soprattutto noi che non l’abbiamo vissuta per esperienza familiare diretta.
Benvenute quindi le sollecitazioni a questo esercizio necessario e difficilissimo.

Ho visto – sala strapiena, con moltissimi ragazzi delle scuole – il documentario «Alla ricerca delle radici del male», realizzato un anno fa da Israel Cesare Moscati e Piero D’Onofrio con la collaborazione di Rai Cinema. Non sapevo di quest’opera, che pure è stata molto vista nelle scuole, raggiungendo – è stato detto – più di 15 mila ragazzi, di cui moltissimi stranieri. Forse per mia distrazione, o forse perché il risalto mediatico è stato finora debole?

Eppure il film documenta un avvenimento eccezionale: i figli e i nipoti degli ebrei eliminati nei lager nazisti si sono incontrati con i figli e i nipoti di alcuni dei criminali tedeschi che hanno obbedito agli ordini, oppure li hanno addirittura impartiti. Queste persone la cui memoria è carica di dolore sono riprese davanti ai monumenti italiani che ricordano quella tragedia e conservano i nomi degli scomparsi.

Le frasi scambiate sono molto toccanti. Ma più ancora valgono le immagini delle lacrime comuni, e dei gesti di donne e uomini che si stringono la mano e si abbracciano. Non si tratta di perdono: nessuno lo pensa e d’altra parte non ci sono più coloro che potrebbero viverlo. È qualcosa di più: la possibilità di condividere una memoria così pesante, di desiderare uno scambio rivolto a un agire tutto il possibile perché l’orrore, quell’orrore, non si ripeta più.

Ho segnato nel buio della sala, fidandomi dell’automatismo della mano, alcuni brandelli delle frasi ascoltate. «Era mio padre a fare quelle liste». «Sono furiosa, perché ho vissuto tanti anni nella menzogna». «La storia riaffiora anche se si vuole tacerla». «I nazisti volevano essere Dio, un Dio individuale e collettivo».

Mi hanno colpito le parole delle donne e dell’uomo tedeschi. Storie di rotture familiari dolorose, di impegno per reagire a una verità insopportabile. Eppure questo paesaggio umano così denso di sofferenza comunica – e non solo per le immagini finali di una bimba appena nata – una grande energia vitale.

Tra le persone e le opere citate dopo la proiezione, il libro che hanno curato Anna Segre e Fabiana Di Segni pubblicando il diario della nonna di Fabiana, Fatina Sed, sopravvissuta col fratello, unici della famiglia, alla prigionia di Auschwitz. Un testo che Fatina volle intitolare Biografia di una vita in più (elliot, 2017).

Pochi giorni dopo un’altra sala, più piccola, ma strapiena, per ricordare Bice Foà Chiaromonte, parlando del suo libro ora ripubblicato Donna, ebrea, comunista (Harpo, 2017). Un testo in cui si trovano i ricordi di una bambina che vede amici e familiari costretti a emigrare dopo le leggi razziali. E che deve per tutta la vita fare i conti a con una identità non solo duplice e triplice (con tutti i conflitti interni che ciò ha comportato), ma ricca di molte passioni e relazioni diverse (l’architettura, la musica, la scuola, la napoletanità). È stata a più voci ricordata la forza di carattere e l’ironia di Bice, che ripeteva come appartenere a tante comunità diverse le consentisse di poter parlare liberamente male quasi di tutti e tutte.

Una forte identità forse non si può fare a meno di cercarla. Se è veramente forte dovrebbe aprire alla libertà, agli altri, al mondo.