Ernesto Galli della Loggia ha attaccato con una virulenta paginata sul Corriere della Sera un articolo di Tomaso Montanari sul Fatto che cominciava con una frase scandalosa: «Identità è una parola pericolosa: non ha alcun uso contemporaneo che sia rispettabile». Si tratta di una citazione dello storico inglese Tony Judt, autore di libri importanti come Dopoguerra. Com’è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi (Mondadori, 2007), o Guasto è il mondo (Laterza, 2011).

Poco dopo l’articolo citava Amartya Sen, e il suo saggio Identità e violenza (Laterza, 2006). Un testo in cui si critica l’approccio che considera gli esseri umani come membri di un solo gruppo, anziché persone «diversamente differenti»: dobbiamo «avere piena consapevolezza – scrive l’economista indiano – di possedere molte e distinte affiliazioni, e di poter agire con ognuna di esse in molti e diversi modi». Si citava anche Mario Vargas Llosa: la domanda che sorge di fronte all’affermazione, violenta, delle identità nazionali e religiose è riassunta in un verso di Pablo Neruda: «E l’uomo dov’era?».

L’articolo di Montanari aveva come obiettivo polemico la propaganda «identitaria» della destra e dei sovranisti nostrani («Prima gli italiani!») e partiva da pensieri formulati non certo da estremisti superficiali, come appunto Judt, Sen, o Vargas Llosa. E forse – è una mia impressione – criticava implicitamente le posizioni «sovraniste» che emergono anche a sinistra (vedi l’iniziativa di Stefano Fassina e di altri con l’associazione «Patria e Costituzione»).

Ma Galli della Loggia ha concentrato tutta la sua vis polemica sul titolo («L’identità italiana non esiste») e sulla frase, dubitativa, che vi corrisponde nel testo: «se identità significa – etimologicamente – uguaglianza assoluta, corrispondenza esatta e perfetta, bisogna dire con chiarezza: no, questa ‘identità italiana’ non esiste».

Sull’uso che Salvini e soci fanno del tema identitario (nella classica triade Dio, Patria, Famiglia), raccogliendo un consenso allarmante, Galli non dice praticamente nulla. È invece molto preoccupato che posizioni come quella di Montanari siano dannosissime per la sinistra: l’editorialista liberal del Corriere da un po’ di tempo è singolarmente inquieto per le sorti della sinistra: è giunto a rimpiangere i bei tempi della famigerata «Prima Repubblica», col senso civico dei grandi partiti di massa… Che sotto sotto covi un qualche senso di colpa per posizioni ideologiche decennali che hanno favorito anche da parte della cultura liberale l’ascesa dei Salvini?

Ma non sarebbe il caso di occuparsene se il tema non fosse davvero molto rilevante per la sinistra e la politica democratica. Non tutto il ragionamento di Montanari mi convince. Perché non basta dire – cosa vera – che la storia della cultura e delle culture italiane è fatta più di meticciato e multiculturalismo, oltre che di contrasti di classe, di sapere e di potere, e che è invenzione ridurla a una unica o prevalente matrice, per dotarsi di una strategia efficace contro razzismi, integralismi e machismi di destra.

Alle irrinunciabili posizioni di principio universalistiche andrebbero intrecciate proposte e comportamenti credibili per affrontare il disagio sociale che sostiene il consenso alle bugie identitarie. Parliamo tutti italiano (grazie più alla tv democristiana che ai Promessi sposi e mangiamo tutti la pasta (da un bel po’ anche il Cous cous. Ma le identità individuali e collettive sono un continuo divenire di differenze, un conflitto, una ricerca. Non un dato fermo e certo, falso ma consolatorio.