Tradotto e pubblicato con il risalto riservato ai maestri, James Baldwin – esponente di punta della letteratura afroamericana del secondo dopoguerra, centrale nel dibattito pubblico soprattutto degli anni Sessanta, capace di spaziare tra narrativa, saggistica e teatro – era scomparso dai radar ben prima della sua morte prematura, nel 1987, a soli cinquantatre anni, per tornare accessibile grazie a una piccola e coraggiosa casa editrice come Amos, che nel 2013 ha riproposto, in una nuova traduzione, il suo splendido romanzo di esordio, Gridalo forte.

Ora, questo processo di riscoperta procede decisamente spedito, se è vero che, nel giro di un anno, tre diversi editori hanno puntato su altrettanti testi di Baldwin.

Ha cominciato, alla fine del 2016, Racconti edizioni, che ha riproposto, nella «storica» traduzione di Luigi Ballerini, Stamattina stasera troppo presto (pp. 216, euro 16,00) il volume nel quale è raccolta l’intera produzione breve di Baldwin, da quel «Previous condition» che, pubblicato su Commentary nel 1948, può essere considerato l’atto di nascita dello scrittore, a «Il macigno» e «La scampagnata» – collegabili anche tematicamente alla fase di composizione di Gridalo forte –, ai capolavori della maturità come «Blues per Sonny» e «Come out the wilderness».

Ora, Playground Press dà alle stampe, in un’edizione preziosamente Vintage, Congo Square, nell’ottima traduzione di una specialista come Sara Antonelli (pp. 83, euro 9,00) rievocazione, tra saggio e memoir, della scoperta del cinema da parte dell’autore adolescente, e riflessione di impareggiabile acume e rigore sul carattere «culturale» degli stereotipi razziali.

Accuse di assimilazionismo

Fandango infine ripropone, nella nuova ed efficacissima traduzione di un altro americanista di vaglia come Alessandro Clericuzio, La stanza di Giovanni (pp. 221, euro  17,50) secondo romanzo di Baldwin, annunciando, nel contempo, l’intenzione di ripubblicare anche i successivi, incluso quel Un altro paese che molti considerano il suo capolavoro, e che scatenò le critiche di un protagonista della stagione dei diritti civili e delle rivolte razziali come la pantera nera Eldridge Cleaver, pronto in pieno ’68 a rimproverare allo stesso Baldwin – che pure, con La prossima volta il fuoco, aveva scritto un vero e proprio manifesto della protesta afroamericana – un eccesso di servilismo nei confronti dei bianchi, e soprattutto il desiderio quasi ossessivo di assimilare e assimilarsi a una cultura e a una tradizione letteraria dalle quali i neri erano stati sistematicamente esclusi.

La presenza nelle librerie di tre volumi in cui Baldwin si cimenta con altrettante forme letterarie offre un’occasione unica per rivalutare, a distanza ormai di decenni, il suo peso specifico di autore e soprattutto la sua eredità letteraria, ed è forse proprio da La stanza di Giovanni che può essere opportuno prendere le mosse. Come ci ricorda Colm Tóibín nella splendida postfazione al romanzo, citando un’intervista rilasciata dallo stesso Baldwin nel 1980, l’editore Knopf, che aveva pubblicato il suo libro di esordio, rimase perplesso di fronte a un romanzo che aveva per protagonisti solamente bianchi, e che spostava il focus dal tema dell’identità razziale a quello dell’identità sessuale.

I due soggetti sarebbero più tardi confluiti, tanto nella produzione narrativa quanto in quella saggistica, in un’unica e articolata meditazione nella quale è la stessa vocazione identitaria, in tutte le sue manifestazioni, a essere percepita come un limite e un costrutto culturale. «Di certo non mi sarebbe stato possibile», affermava però Baldwin nell’intervista citata da Tóibín, «a quel punto della mia vita, trattare l’altra grande questione, quella della razza. La questione sessuale/morale era già difficile a sufficienza. E non avrei potuto trattarle entrambe nello stesso libro.»

Knopf voleva un altro romanzo sulla vita di Harlem, e ricordò a Baldwin, come, in quanto scrittore nero, avrebbe dovuto rivolgersi a un pubblico specifico. «E così», concludeva Baldwin, «mi dissero: “non puoi permetterti di alienarti quel pubblico. Questo nuovo libro ti rovinerà la carriera perché non stai scrivendo delle stesse cose e nello stesso modo di prima, e noi non te lo pubblicheremo solo per farti un favore”». In effetti, il romanzo uscì nel 1956 da un altro editore, Dial Press.

La profezia di Knopf si sarebbe avverata, almeno in parte. Alla scelta di allargare il proprio sguardo dalla mera questione razziale a una più ampia riflessione sull’identità come costrutto culturale Baldwin accompagnava, già nella Stanza di Giovanni e ancor più nel successivo Un altro paese, una complessa operazione di assorbimento e rielaborazione della tradizione letteraria americana tout court, di cui Tóibín rintraccia efficacemente gli snodi più significativi.

Affiancando al tema dell’espatrio quello di una sessualità incerta e liminare (il protagonista, David, è diviso tra le tentazioni dell’amore coniugale e il sentimento totalizzante che scandisce la sua storia con il barista italiano Giovanni), Baldwin attinge a piene mani a un ventaglio di modelli che vanno dal James di Ritratto di signora e degli Ambasciatori allo Hemingway di Fiesta. E Hemingway risuona ripetutamente anche come modello di stile, a partire dalla fertile secchezza dell’incipit: «Sono in piedi davanti alla finestra di questa grande casa nel Sud della Francia mentre cala la notte, la notte che mi porterà al mattino più tremendo della mia vita».

Abbandonando i modelli tutti afroamericani di Gridalo forte – a partire dall’autobiografismo e dall’antifonalità della scrittura –, o comunque affiancando loro modalità di racconto e stilemi ricavati dalla tradizione bianca e americana, Baldwin si lanciava alla ricerca di un difficile e prezioso sincretismo culturale, che molti dei suoi compagni di protesta avrebbero guardato con sospetto e che gli sarebbero valsi critiche spesso feroci all’interno della sua stessa comunità.

Sulla qualità letteraria

Rimane aperto, invece, il dibattito sul livello di compiutezza e sulla qualità della sua scrittura: se Tóibín si spinge a definirlo «il più grande stilista di prosa americano della sua generazione», Saul Bellow, in uno dei saggi ospitati nella raccolta Troppe cose a cui pensare (BigSur 2017) nota nella sua scrittura, e soprattutto nel romanzi, un velleitarismo che rasenta pericolosamente la goffaggine o, sic et simpliciter, la cattiva scrittura.
Su una cosa è però possibile concordare: allargando lo spettro tematico e innalzando costantemente l’asticella della propria ambizione e della propria ricerca, Baldwin ha saputo gettare un ponte che, dalla scrittura identitaria della Harlem Renaissance o di Richard Wright, porta direttamente alle grandi sintesi di Toni Morrison e, oggi, di Colson Whitehead.