La vita raminga del disegnatore e poeta di strada Marcel Bascoulard presto diventerà un film, adattata per lo schermo da Martin Provost. «Sarà un’opera sulla santità», dice il regista nell’anticipare qualcosa della «storia che verrà».
Così l’artista clochard, vagabondo fin dall’adolescenza, quando sua madre uccise il padre con un colpo di revolver e poi fu internata, il pittore feticcio di Bourges che girava trascinando un bizzarro triciclo e veniva nutrito dagli abitanti, ricompensandoli spesso con le sue opere, sarà finalmente conosciuto dal pubblico riemergendo alla luce. E il suo corpo, per decenni dato in offerta sacrificale all’arte, acquisterà la meritata visibilità.
Bascoulard, l’uomo dal destino tragico (anche lui fu assassinato, strangolato da un altro marginale come lui), che sceglieva tessuti usati e si faceva cucire gli abiti «di scena» da sarti di fiducia, che si travestiva seminando indizi esistenziali in una serie di stralunati autoritratti, è in realtà uno dei grandi protagonisti della mostra appena inauguratasi a Venezia, nella cornice di Punta della Dogana.

Dancing with myself, la rassegna (visitabile fino al 16 dicembre, a cura di Martin Bethenod e Florian Ebner) che fa dialogare le opere della collezione Pinault con quelle del Museum Folkwang di Essen in un gioco di specchi che impegna l’iconografia «carnale» dell’artista stesso, è soprattutto una ricognizione su quel bilico che ogni individuo lambisce durante la sua vita, quel pendìo metaforico tra «l’essere e il nulla». E la carrellata di immagini esposte nella mostra veneziana racconta la fenomenologia della rappresentazione di sé, o meglio gli «inciampi» di quell’apparire. Sbagliatissimo, dunque, pensare alla ritrattistica classica di fronte alle molte fotografie che insistono sul corpo, qui trasformatosi in materia plasmabile del mondo, «body» esperienziale, luogo non più privato e intimo, dimora fisica della disgregazione e della schizofrenia identitaria, collage sociale da riassemblare a proprio piacimento.

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La mostra aveva avuto una sua prima tappa a Essen nel 2016, ma in Laguna si è riadattata agli spazi particolarissimi del tempio disegnato dal giapponese Tadao Ando. La metamorfosi in Laguna è avvenuta con l’ausilio di centoquaranta opere, di cui ben centosedici della collezione e ottanta mai presentate prima a Venezia. Nel caso di Cindy Sherman, l’incontro è stato a incastro: si sono riunite le due raccolte dei musei, permettendo una visione ad ampio spettro della celebre serie Untitled Film Stills, fino a precipitare nelle interpretazioni di donne in età matura.
Ad aprire il percorso è Blood del cubano Félix Gonzales-Torres, la tenda di perline rosse sangue che separa l’entrata e l’uscita, simulando un esilio dal proprio corpo e una estroversione dei propri umori, «set» della vita e della malattia, da attraversare trascinando con sé il peso della sofferenza provocata dalla perdita (l’installazione, del 1992, è un tributo al compagno Ross, morto di Aids). E non è casuale che, una volta oltrepassata quella barriera organica, il visitatore sia posto al cospetto di una sparizione progressiva: gli stoppini accesi bruciano lentamente il «simulacro» iperrealista dell’uomo assorto e solitario di Urs Fischer. Quell’individuo in via di estinzione, che smarrisce la fisicità e la «forma» con l’incedere dei giorni, è il contraltare poetico dei calchi umani, immoti, eterni, sbiancati dall’anonimato di George Segal. A Punta della Dogana, «la danza con se stesso» che viene raccontata è soprattutto una iperbole temporale, l’eccessiva consapevolezza che non esiste ritratto possibile senza la coscienza di «essere nel tempo», in primo luogo dentro al proprio tempo, conquistando, e contestando, anche scampoli di storia collettiva, non solo privatissima.

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È quel che fa il brasiliano Paulo Nazareth quando in Noticias de América intesse le sue narrazioni viaggiando via terra per dieci mesi, da Belo Horizonte fino a New York. Raccoglie documenti, piccoli oggetti, crea il suo mosaico di souvenir e, insieme, si fa lui stesso «documento», testimonianza vivente di un retaggio coloniale duro a morire e controcanto di una società infarcita di stereotipi, che si mette al sicuro affibbiando etichette alle persone e al loro vissuto. Vendo mi imagen de hombre exotico, dice il cartello con cui Nazareth posa, invenzione di un autoritratto a uso e consumo dell’altro da sé.
Nelle scatole cinesi dell’esposizione, nell’evolvere e nella dissoluzione temporale che propone ogni opera, la radicalità di Nan Goldn con la sua Ballad of Sexual Dependency trova una sua eco nelle immagini di Latoya Ruby Frazier. L’autobiografia in sequenza fotografica, «pedinata» per oltre dieci anni dall’artista, è una mappa geopolitica di grande potenza. Racconta sia le trame di una comunità affettiva che quelle di un luogo come Braddock, in Pennsylvania, cittadina dove il fallimento dell’industria siderurgica ha spinto i suoi abitanti ad aggirarsi fra le rovine come superstiti-zombie. Per lei, collezionare ritratti di famiglia è un atto di resistenza, non c’è nessun narcisismo o claustrofobia in quell’universo circoscritto raffigurato in un esercizio meticoloso di verità. «Mi rifiuto di essere cancellata o ridotta a una statistica senza nome. Mia madre, mia nonna e io non siamo astrazioni. Ho voluto produrre una registrazione visiva (e umana) della disuguaglianza socioeconomica, della penuria di assistenza sanitaria, delle malattie terminali che hanno costellato la storia di Braddock».
In Belgio, la «traccia» visiva che Latoya Ruby Frazier ha cercato (ascoltando le loro biogafie, scattando immagini) è stata quella dei minatori del Borinage. Da molti, per il suo lavoro sociodocumentario (che possiede anche un’intensità lirica e riesce a cambiare registro, da reale a concettuale) è considerata l’erede naturale di cantori della classe operaia come Walker Evans e Dorothea Lange.
Alla fine dell’itinerario, si esce dalla mostra con la convinzione che quella sfida dell’identità sia perduta. La frantumazione punk della canzone di Billy Idol (Dancing with myself, appunto) ha vinto, riconsegnando una soggettività multipla, nostalgica, intrappolata dal desiderio impellente di essere riconosciuta, se non fosse che quel riconoscimento è ormai impossibile.