«Lottare per una società più giusta non è una moda del passato ma un dovere per tutte e per tutti soprattutto in questi ultimi anni in cui movimenti populisti mettono in discussione libertà e diritti acquisiti. Anche per questo abbiamo deciso di dedicare il quinto anno del festival al tema del coraggio; non quello appariscente e costruito, ma un coraggio meno visibile, tenace e costante che è caratterizzante l’agire della cultura e che sarà sia il tema di riflessione dei prodotti culturali scelti che la modalità in cui lavoreremo per l’anno a venire. Orlando è un festival che non vuole aver paura di affrontare temi complessi, con delicatezza, ironia e attenzione» Con queste parole, Mauro Danesi, curatore del festival, ha annunciato la quinta edizione di Orlando, dedicato all’esplorazione di identità, generi e rappresentazioni del corpo. Evento di punta della rassegna, la presentazione del film They di Anahita Ghazvinizadeh, giovane e apprezzata regista iraniana che martedì 15 maggio sarà all’Auditorium di piazza Libertà ad accompagnare il suo film, lo stesso giorno in cui They, prodotto con il supporto di Jane Campion e selezionato al festival di Cannes 2017, esce nelle sale italiane distribuito da Lab 80 film. Il film racconta la storia del quattordicenne J, né un maschio né una femmina ma bensì un “loro”. J, creatura “senza genere” e determinato a esplorare la sua identità di genere, segue una terapia ormonale per ritardare la pubertà ma dopo due anni, deve decidere se lasciarsi transitare nella fase dell’adolescenza oppure no…

Hai realizzato una serie di cortometraggi incentrati sulla “permeabilità” della crescita e la formazione dell’identità in età pre-adolescenziale. Con They invece, esplori la questione dell’identità di genere, come sei approdata a una tematica così forte e precisa?

Non ho mai pensato di voler fare programmaticamente un film sull’identità sessuale. E’ successo per caso, durante la lavorazione di un cortometraggio precedente. Ho quasi sempre lavorato con attori e attrici alle soglie delle pubertà, come in When the Kid Was a Kid, interrogandomi su cosa si agitasse dentro la loro identità in un momento così particolare. Inevitabilmente sono arrivata al discorso sull’identità sessuale e su come ci si relaziona al proprio corpo, tutti temi soltanto sfiorati nei miei lavori precedenti. Così, verso la fine della lavorazione di un corto che si ispirava alle opere di Italo Calvino, ho conosciuto i famosi “puberty blockers”, medicine che bloccano l’azione ormonale e dunque ritardano la pubertà, e questa sospensione della crescita mi ha fatto riflettere, anche se per motivi completamente diversi, sul periodo di transizione, lavorativa e geografica, che stavo vivendo. Ho conosciuto un medico a Chicago, alcune famiglie e il casting è stato fatto attraverso questo dottore. Lavorare con Rhys, Koohyar e Nicole (rispettivamente J, Araz e Lauren) è stata la cosa più gioiosa. Sentivo che avevano qualcosa in comune con i loro personaggi ma non si trattava delle loro esperienze singole bensì di uno spirito affine.

La tua filmografia sembra dialogare spesso con quella di Jane Campion, specialmente nell’attenzione alle trasformazioni del corpo ma anche nel considerarlo come uno spazio interiore da frammentare ed esplorare…Tra i produttori esecutivi del film, compare anche il nome di Jane Campion, come è nato, e successivamente sviluppato, questo rapporto?

Nel 2013 il mio corto Needle era a Cannes e inaspettatamente ha vinto un premio. Jane presiedeva la giuria ed è stata molto incoraggiante e generosa. Successivamente ci siamo scritte delle lunghe lettere ed è nato questo rapporto speciale. Il suo lavoro è stato fondamentale nella mia formazione, soprattutto film come Sweetie e Un angelo alla mia tavola. Ho ricevuto consigli pratici ma non solo, Jane è stata magnifica anche nel condividere con me non solo la sua idea di cinema ma anche quella d’arte e di vita.

Un altro nome che ha tratteggiato il tuo percorso è quello di Abbas Kiarostami. Sei stata una sua studentessa prima di trasferirti negli Stati Uniti. Quale “eredità” cinematografica ti ha lasciato?

Ancora prima di incontrarlo, ero una semplice studentessa e avevo scritto una storia molto simile al suo Dieci poi ho cominciato, grazie a un compagno di studi, a frequentare i suoi workshop. Ho avuto la possibilità di comprendere il suo metodo di lavoro, sia con gli attori non professionisti che con i bambini. Una delle cose più importanti che mi ha insegnato è stata avere il coraggio di girare fuori dall’Iran. All’epoca, Abbas aveva già girato Copia conforme e stava per realizzare Qualcuno da amare, e mi raccontò la bellezza e il mistero di girare un film non della nostra lingua, lontano dalla nostra casa, con in mente l’idea che l’unico linguaggio universale è proprio quello del cinema. E così ho avuto la forza di girare in un paese, gli Stati Uniti, di cui non conoscevo appieno la cultura. Ma la cosa più importante che mi ha insegnato è che non è sufficiente avere un pensiero o una visione, bisogna prendere in mano la macchina da presa e imparare facendo, sentire le inquadrature e solo così ho compreso che l’arte viene dalla vita e alla vita ritorna. Il cinema “mainstream” predilige il primo piano per farci sentire le emozioni di un personaggio, Kiarostami invece non lo fa mai, hai la percezione che i suoi personaggi siano impenetrabili e questo per me è fondamentale. Nei miei film accade lo stesso, la mia macchina da presa non vuole entrare da un accesso così semplice.

Tornando a They, come è stato recepito il film in Iran? Ci sono state delle reazioni da parte della comunità LGBT?

E’ complicato perché in Iran, prima di parlare di una specifica comunità gender, bisogna considerare che la libertà d’espressione del corpo, parlando in termini generali, è assolutamente difficoltosa e regolamentata dal governo. Ci sono molte regole su come vestirsi, come comportarsi in pubblico. C’è sempre questa differenza fra come puoi mostrarti in pubblico ed essere nel privato. Ci sono comunità queer underground e ho avuto da loro dei feedback molto importanti riguardo al film. Non ho una parola unica, o breve, per rispondere, posso solo dire che le condizioni di vita, riguardo al discorso generale sul corpo, migliorano. Ho fatto una scuola d’arte prima di dedicarmi completamente al cinema e così la teoria di basare la propria riflessione sulla pratica sociale, considerando politico ogni lavoro o quantomeno capace di sviluppare consapevolezze, viene proprio da lì. Non mi considero però un’attivista, sono focalizzata sul mio pensiero personale ma sono anche figlia del mio tempo, dunque devo sempre focalizzarmi su qualcosa che racconta la mia generazione. C’è una sorta di pubblico di nicchia che ha stabilito i proprio criteri su cosa sia bello o brutto in un un film e io, idealmente, vorrei che They andasse al di là queste definizioni, che fosse visto da un pubblico che può anche non amare il cinema d’autore, qualcuno che sia sconosciuto, inaspettato, un pubblico insomma che ama essere toccato e coinvolto in maniera totalmente aperta.