La mostra di Francesca Montinaro è come un organismo vivente in crescita. È nata alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, si è spostata alla biennale di Venezia, è arrivata poi nelle stanze di Montecitorio. Ogni passaggio segna una fisionomia più complessa, nuovi tasselli, nuove indagini. Un ritratto del femminile che si scompone in tanti frammenti, in tanti modelli. Legati da un’ansia di narrazione del poliedrico stare al mondo delle donne, ritratte, con seicento profili montati come video installazioni, nell’atto di offrirsi allo sguardo, di mostrare una propria personale poetica della vita inscritta sulle mani che si mostrano colorate di una frase, scelta da ognuna.

La mostra alla Camera dei Deputati, ha come titolo Non avere paura / Ritratto continuo mod. 3.375.020.000. Il numero è quello approssimativo delle donne presenti nel mondo, seicento delle quali «hanno messo al mondo il mondo» per utilizzare quella immagine emotiva, prima che artistica, che ci ha regalato Alighiero Boetti. Di questo universo multiforme si attraversa la peculiarità di certi stati, l’essere sposa, donna col velo, l’essere suora o venditrici porta a porta, detenute o lavoratici della conoscenza. Tutte si prestano allo sguardo, per costruire un mosaico antropologico abitato da sorprendenti rimandi e da irremovibili contraddizioni. Come tutte le identità anche quella composita è una summa di qualità e abissi, il cui utilizzo costruisce il tappeto di una possibile differenza: usare la vita che è materia multiforme e sconfinata, per costruire felicità. Si potrebbe dire non lasciarsela scappare dalle mani questa felicità, ma trattenerla, fissarla, riprodurla, moltiplicarla.

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Mettiamo allora di trovarci di fronte a una bibliografia viva. Immaginiamo che ogni messaggio serva a diventare il materiale pulsante di una composizione teorica su come il femminile debba e possa uscire da una narrazione marginalizzata e vittimista per farsi soggetto a caccia di una vita degna. Leggiamo le mani di queste donne, che si alternano sui sei schermi posizionati nel Corridoio dei Busti, abitati dai protagonisti della storia dell’Italia risorgimentale, postunitaria e repubblicana.

Una suora ha scritto sulle sue mani di esprimere la sua forza con la danza, una sposa chiede: «non lasciateci sole», ma aggiunge: «altrimenti ce la faremo lo stesso». Dall’universo delle venditrici porta a porta emerge il monito materialistico del «guadagna la tua indipendenza», una scrittrice raccomanda «non c’è niente da temere tranne la paura», una donna con il velo ricorda che «non giudicare» è un importante metodo per la decolonizzazione delle conoscenze. E una detenuta provoca il sistema della giustizia che spesso ha i tratti del disumano: «sono un mostro, mangio le persone».

Tra le indagini più interessanti offerte dalla mostra di Montinaro si segnala quella sulla scelta del velo. Tre tipi di donne velate, spose, suore, musulmane. Un gesto uguale e diversissimo esplorato nel proprio specifico peso. In questa trasversalità già qualcosa di preziosissimo per lo screditamento del senso comune: smontare le categorie occidentali che lasciano immaginare differenze dove non ci sono. Decostruire l’univocità di un atto che il pensiero «occidentecentrico» vive solo come nascondimento identitario. Può spiazzare pensare che dietro ci sia una scelta. Può sconcertare scoprire la propria arroganza nel diventare misura del mondo. E infine può consolare comprendere, in questa polifonica rappresentazione, che «arte è multitudo».