A seguito della polemica scatenata dal sito di estrema destra Fdesouche, poi ripresa da Wallerand de Saint-Just, tesoriere del partito Fronte Nazionale, lo svolgimento del festival afrofemminista Nyansapo previsto per fine luglio è stato messo in discussione anche dalle dichiarazioni della sindaca di Parigi Anne Hidalgo. A fine maggio, infatti, Hidalgo aveva condannato, scegliendo la visibilità di Twitter, un evento «vietato ai bianchi», riservandosi la possibilità di perseguire lo staff del festival, accusandolo di discriminazione razziale.

Due sono, però, le questioni da prendere in considerazione per comprendere la vicenda.
La prima concerne l’ubicazione del suddetto festival. Nyansapo, dal 28 al 30 luglio, si organizzerà in quattro momenti, uno dei quali si svolgerà nella sede della Générale Nord-Est, una cooperativa artistica, sociale e politica situata nel cuore dell’XI arrondissement, di proprietà del comune di Parigi. Da qui nascerebbe il problema, per una presunta interdizione di accesso a uno spazio pubblico. Il collettivo Mwasi (che sta cooordinando la rassegna) ha replicato dichiarando che questo spazio sarà aperto a un pubblico misto, ribadendo che in tal senso il problema d’interdizione d’accesso in spazio pubblico non sussiste.

Gli altri tre momenti, rispettivamente accessibili alle donne nere, a uomini e donne black e a donne «razializzate» (secondo la categoria della dominazione di genere e di classe) si svolgeranno invece in spazi privati. Nella totalità delle occasioni saranno previsti scambi a proposito dei femminismi decoloniali.

La seconda questione è più complessa. Riguarda il desiderio da parte delle militanti dell’associazione Mwasi di costituire spazi di discussione dove sia possibile ritrovarsi e organizzarsi anche al di fuori degli spazi del femminismo mainstream. Il desiderio di creare luoghi di militanza non mista rappresenta una pratica già nota a molte forme di attivismo, tra le quali storicamente si possono annoverare quella delle femministe francesi degli anni Settanta e quella del movimento per i diritti civili degli afroamericani negli Stati Unite degli anni Sessanta. Si trattava e si tratta di comprendere il principio di auto-organizzazione e di autonomia culturale.

Eva Doumbia, militante femminista franco-ivoriana-maliana, ha recentemente pubblicato Anges fêlées per le edizioni Vents d’ailleurs (pp. 92, euro 12), romanzo sul tema delle migrazioni femminili e delle frontiere identitarie. Fondatrice della compagnia teatrale La Part du Pauvre/Nana Triban e vicina all’associazione Mwasi, ha accettato di rispondere in merito alla recente polemica parigina.

Da cosa deriva la necessità di momenti di riflessione a dimensione variabile? Può spiegarci quanto conti il beneficio di uno «spazio per sé» per liberare la parola?
È difficile dare un nome a questa necessità, come è difficile e parlare liberamente in uno spazio pubblico. Comincerò partendo dalla mia esperienza personale. Ho impiegato molto tempo per identificare la natura dei problemi, per ammettere che le esperienze vissute (comprese quelle dell’infanzia), erano da inscriversi nella categoria del razzismo. Questo perché, ad esempio, le istituzioni francesi non riconoscono i fenotipi come fattori discriminanti. In realtà, si parla molto poco di razzismo in Francia, e quando se ne discute ci si limita a indicare delle minoranze (come il razzismo insito al partito Fronte Nazionale).  Nel mio caso, sono stati gli incontri con artisti (scrittrici e scrittori) e quelli con il mondo militante che mi hanno aiutata a emergere da una forma di isolamento. Anche i social network consentono di creare relazioni, un’esperienza comunitaria e, in tal modo, una comunità di pensiero. Ho cercato di mettere queste esperienze al centro del mio lavoro artistico: ci si ritrova attorno a un progetto artistico e ci si rende conto che, in quel contesto, si condividono storie, ricordi. Quando ci si esprime pubblicamente invece si generano tensioni, anche negazione. E quest’ultima è una forma di ulteriore violenza. Credo che provenga da qui il desiderio di riparo, di spazi di riflessione senza «violenza esterna».

Secondo lei, è possibile motivare l’ampiezza di questa polemica con la presa di coscienza che le problematiche del femminismo postcoloniale e intersezionale sono ancora sconosciute ai più?
Credo che la vera ragione stia nel fatto che questa polemica comprometta il mito di una Francia dei diritti umani, anti-razzista, umanista. Gli sfruttati sono sempre stati tenuti nascosti: gli schiavi dimoravano lontani e mettere piede nella Francia metropolitana garantiva la libertà (almeno in teoria). Le imprese francesi sono parti interessate in ogni conflitto in Africa e l’esercito francese è presente nelle ex colonie, con tutto ciò che questo comporta (stupro, prostituzione)… È difficile per le classi medie istruite (di pelle bianca) riconoscere che sono dalla parte del dominante. Il mito di una Francia rivoluzionaria progressista è inscritto in tutti coloro che rifiutano di riconoscere che questa storia ha un seguito di dominazione, stupri e, naturalmente, guerre coloniali.

Cosa rivela la reazione di Marie Hidalgo? Si tratta di salvaguardare il diritto all’accessibilità per i cittadini parigini o di una forma di disagio nei confronti di una logica identitaria considerata come potenzialmente pericolosa?
È il risultato di tutto ciò che ho appena citato: si rifiuta il posto del dominante, meno affascinante rispetto a quello del ribelle. Si nega la struttura razzista del paese e si nega anche la propria responsabilità in questo razzismo strutturato. Ed è difficile per una donna bianca ammettere di perdere il suo posto di super eroina-vittima in favore della donna nera. In combinazione, c’è anche la pratica del tweet: si va veloci per non apparire in ritardo, finendo per ridicolizzarsi.

La polemica è stata messa in moto dall’estrema destra francese. È sintomo di qualcosa?
L’estrema destra ha capito molto bene l’influenza che può avere nel paese e soprattutto che la Francia coloniale è la stessa che struttura le relazione tra i vari cittadini.