Un campionato del mondo di calcio, nonostante si disputi in Brasile, può dirsi ancora tale? Sì e no. perché il Brasile è la patria di un gioco presto sublimato in danza e prodigio incantatorio (nonostante la pratica del futebol, teste Alex Bellos, vi sia approdata relativamente tardi per il tramite oltretutto di ruvidi scozzesi), no perché il calcio da molto tempo ha smesso di essere un gioco e persino uno sport per tradursi in quello che in effetti è, qui e ora, praticamente ovunque: vale a dire uno spettacolo a dominante televisiva, una merce a diffusione planetaria la cui aura persistente, smentendo nientemeno la tesi di Walter Benjamin, non si è affatto spenta con la riproducibilità tecnica dello spettacolo ma, anzi, si è incorporata nel prodotto che è venuto dilagando in maniera pressoché ubiquitaria.
Oggi il calcio non è, come credeva o si augurava Pier Paolo Pasolini, l’ultima rappresentazione sacra al tempo del neocapitalismo ma, al contrario, è la perfetta riconsacrazione di una fede da tempo dissacrata o, se non altro, è il surrogato di una religione pop, dogmatica e fondamentalista. Perciò il calcio è il calcio è il calcio è il calcio, eccetera, come nella celebre e sonnambolica tautologia, in quanto si riproduce all’infinito e non tollera qualcosa al di fuori di sé. Soprattutto non ammette lo si prenda da distante e da fuori, in una dimensione ironica o propriamente critica, perché il calcio (e lo confessa un altro scrittore appassionato, tifoso del Barcellona, Henrique Vila-Matas) proprio nel momento in cui si offre allo spettacolo sembra avere già incorporato e riassorbito lo sguardo da fuori, ogni sguardo possibile. Deludono sempre i libri e i film che pretendono di raccontarlo dall’interno perché il calcio televisivo è già film e racconto in sé stesso o è insomma l’ostensione di un valore di scambio, di una merce straordinariamente prelibata, che si dà senza residuo e si impone come tale. È la cosa in sé, la quale innesca un infinito intrattenimento, una perpetua discussione ma, per l’appunto, di per sé è intangibile, indiscutibile.
Dunque di che cosa parliamo, quando parliamo del Mondiale brasiliano? Né più ne meno di un catalogo merceologico e/o di un evento spettacolare. È possibile, in un certo senso, descriverne la conformazione ma è improbabile sottoporlo a critica. (La sola critica effettuale corrisponderebbe allo spegnere il televisore e però si tratterebbe di una critica ascetica, primordiale).
Il Brasile vale la futura Dubai, non è il Terzo Mondo in cui si disputarono i Mondiali del ’50, ma la prima lettera dell’acronimo Brics, un paese emergente, mondializzato e perciò enormemente squlibrato nella sua compagine sociale; i suoi stadi non corrispondono più alla geografia mitica della torcida (coi nomi esotici, tra Rio e San Paolo, di Flamengo, Botafogo, Palmeiras, Corinthians) ma risultano catini omologati come se ne troverebbero, tutti quanti lindi e pinti, ancorché funzionalissimi, in qualsiasi altro posto del mondo; gli orari previsti per le partite, come accade purtroppo fin da Mexico ’70, smentiscono non solo la cadenza dei bioritmi e la meteorologia ma anche il minimo buon senso adeguandosi senza mercè alla massima copertura televisiva; il numero delle squadre, giunto alla cifra decisamente folle di 32, promette una vera e propria temporada televisiva cioè una sbornia da calcio, se possibile, mai vista. Sapienti alchimie geopolitiche (ne sa qualcosa il povero Giovanni Trapattoni, con la sua Irlanda) hanno sovrainteso alla formazione degli otto gironi, i quali esauriscono il campionario potenziale: presenti gli squadroni di antica e recente nobiltà (l’Argentina, la Germania, l’Italia, l’Inghilterra, l’Uruguay, la Spagna, la Francia, ovviamente il Brasile), presenti le classiche outsider (l’Olanda eterna seconda, il Giappone, la Croazia, la Bosnia, il Belgio e la Svizzera a sorpresa), presenti specialmente le squadre africane (Camerun, Costa d’Avorio, Ghana, Nigeria) in cui giocano i più splendidi atleti del torneo. È pensabile una incombenza del clima e, allo stesso tempo, un grande equilibrio tecnico-tattico perché solo relativamente i moduli di gioco corrispondono, oramai, alle antiche scuole nazionali. È in atto una contaminazione fra ciò che un tempo divideva l’atletismo degli anglosassoni dal funambolismo dei sudamericani o dal pragmatismo spiccio delle scuole intermedie (vedi soprattutto l’Italia e l’Uruguay). Qui, Renzo Ulivieri ripete sempre che una volta la novità di un modulo di gioco poteva durare anni ma oggi, vista e rivista da chiunque in tv, dura non più di una settimana. Insomma tutti corrono, molto e troppo, tutti pressano l’avversario e coprono gli spazi, tutti cercano la profondità del campo per il cambio di marcia o il contropiede. (Fa relativa eccezione la Spagna campione in carica con la sua perpetua tessitura, ma ha un gioco così ribadito e stucchevole, così infinitamente noioso, quasi disponesse soltanto di undici centrocampisti su undici calciatori, che molti appassionati se ne augurano una precoce eliminazione). È sperabile, viceversa, che siano ben visibili e determinanti, oltre la metafisica dei moduli e degli schemi, le giocate dei grandi campioni. Di costoro sovrabbondano l’Argentina e il Brasile, non ne mancano alle altre compagini e per tutti basterebbe fare il nome del croato Luka Modric, che è un Pirlo meno cartesiano ma dispone di una marcia più. Quanto all’Italia, la squadra di Prandelli non sembra avere grande personalità, anzi pare un coacervo di assi un po’ troppo navigati (Buffon, Cassano, lo stesso Pirlo) e di giovani abbastanza modesti, a parte l’amletico e ineffabile Mario Balotelli. Il fatto di non partire favorita è comunque la sua chance paradossale: Gianni Brera, in proposito, amava citare una massima che egli attribuiva a Guicciardini (in realtà era sua) secondo cui «se tu nelli italiani riponi fidanza, sempre aurai delusione». Scarsa è la fiducia, medio-basse le quotazioni, dunque è persino possibile che gli azzurri, se non altro per ricorso storico, scampino a un’umiliante figuraccia.
Quanto all’orgia televisiva che ci attende, forse è un utile contravveleno la lettura di un racconto che comincia così: «Il Mondiale del 1942 non figura in nessun libro di storia ma si giocò nella Patagonia argentina senza sponsor né giornalisti e nella finale accaddero cose molto strane, come il fatto che si giocò un giorno e una notte senza riposo, che le porte e il pallone sparirono e che il temerario figlio di Butch Cassidy tolse all’Italia tutti i suoi titoli. Mio zio Casimiro, che non aveva mai visto da vicino un pallone da calcio, fece il guardalinee della finale e alcuni anni dopo scrisse delle memorie fantastiche…».
Quel Mondiale favoloso si giocò non lontano dal Brasile, nessuna televisione per fortuna era lì presente, nessun testimone poté davvero assistervi se non l’immaginario di un grande scrittore che intitolò il suo racconto come Il figlio di Butch Cassidy (ora in Futbol. Storie a cura di Paolo Collo, Einaudi 1998). Quel grande scrittore, patito di calcio e della vita stessa, era un nostro, indimenticabile, compagno e si chiamava Osvaldo Soriano.