Nell’aprile 1979, Jean-Luc Godard scrive alla collega e amica Carole Roussopoulos una lettera pubblicata in maggio sul numero 300 dei «Cahiers du cinéma»: «Penso a te ogni tanto, anche se ti stupirà. Mi chiedo come stai e che fai con la tua piccola Sony in bianco e nero. Mi chiedo anche, a volte, che ne è stato delle persone che hai filmato, ai quattro angoli della Francia e del mondo. L’operaia di Troyes, la sindacalista di Besançon, la puttana di Lione, le due sorelle, il combattente, la donna che ha abortito e l’avvocato, la Black Panther, e Geronimo. Una volta ho pensato di proporti di andarli a cercare con una piccola videocamera, stavolta a colori. Sarebbe stato un vero film di avventura.

Però mi chiedo anche perché la gente di cinema abbia tutta questa frenesia di filmare gli altri. Non si può aver così bisogno degli altri. Sicuramente chi fa film non ha bisogno personalmente di ciò che filma per migliorare la propria vita. Anzi, tende proprio a nascondersi dietro l’immagine dell’altro e in questo modo l’immagine diventa uno strumento di cancellazione».
A queste parole mezzo affettuose e mezzo accusatorie, la regista replica: «In risposta alla tua lettera del 12 aprile 1979, continuo a svolgere il mio lavoro di ‘scrivana pubblica’, sempre con una videocamera Sony, oggi a colori e sempre più piccola. Ho mantenuto delle relazioni, spesso di lotta, con la maggior parte delle persone che ho filmato. A rischio di deluderti, devo dirti che mi nascondo ancora e sempre dietro l’immagine dell’altro, forse semplicemente perché la trovo più interessante della mia»