In un paese delle dimensioni dell’Uruguay, la presenza di tante voci poetiche femminili è sorprendente: dalle moderniste dei primi del Novecento – Delmira Agustini e Juana de Ibarbourou – fino alle contemporanee Marosa Di Giorgio e Peri Rossi, la lista è lunga e comprende personalità diversissime, ognuna a suo modo fondamentale: tra queste, Idea Vilariño ha un ruolo speciale, che ci è permesso apprezzare grazie alla sua pubblicazione nella collana Capoversi dell’antologia Di rose che si aprono nell’acqua (a cura di Laura Pugno, Bompiani, pp. 375, € 22,00).

Partecipe, insieme a Ida Vitale, Amanda Berenguer, Mario Benedetti, Ángel Rama e altri di quella «Generazione del ‘45», che fu tanto cruciale per la cultura latinoamericana, Idea Vilariño è stata una «donna di lettere» a tutto tondo: poetessa, saggista, critica letteraria, traduttrice, ha sommato all’impegno intellettuale una costante passione civile, che della scrittura faceva un tramite con il resto del mondo. Cinque movimenti scandiscono il fare poetico di Idea Vilariño, il primo dei quali è costituito dalle raccolte giovanili in cui emerge un io poetico appassionato ma che non cede ai suoi impulsi emotivi, già capace di elaborare testi complessi e disincantati.

A partire dagli anni Cinquanta, l’opera di Vilariño comincia a organizzarsi per ambiti precisi, confluendo in tre libri, che la stessa poetessa arricchirà e modificherà nel corso degli anni, come se fossero depositi tematici ed emozionali in continua elaborazione. Tutta l’incertezza esistenziale che la contraddistingue sembra venire a galla in Nocturnos, una raccolta apparsa in prima edizione nel 1955, dove in forme sempre più brevi ed essenziali viene espressa una cruda visione della vita, in cui l’orizzonte inevitabile della morte si fa misura dell’esistenza.

Contemporaneamente, escono i suoi Poemas de amor, la cui prima versione è del 1957, abitati da una convivenza indissolta tra pulsioni di vita e di morte, provenienti da un passato vissuto come fosse un resto, ma anche causa di un presente fatto di solitudine, in cui l’assenza dell’amante costruisce uno spazio di silenzio e di abbandono. Il terzo ambito troverà la sua realizzazione più compiuta in Pobre mundo, del 1966, un libro pienamente situato all’interno di quella corrente di poesia politica degli anni Sessanta a cui Vilariño contribuisce con una voce singolare, segnata dalla violenza, dalle speranze rivoluzionarie, dall’impegno a favore della giustizia e dei cambiamenti politici nel mondo latinoamericano, che si esprime sempre in forme essenziali, lontane da ogni retorica.

Le tre linee ideali lungo le quali si era indirizzata la poesia di Idea Vilariño convergono nella brevità e nella sobrietà assoluta di No il libro-sintesi di tutta la sua opera datato 1980, testimonianza di una battaglia con una lingua intesa come mero strumento di rappresentazione. La scrittrice uruguayana è infatti approdata, ormai, a un’idea del lavoro poetico, che sintetizza in tre principi, nel corso di una lettera inviata all’altro grande protagonista della letteratura uruguyana novecentesca, Mario Benedetti: una poesia deve dire una sola cosa, non deve spiegare o definire nulla, e deve rimanere nella memoria, risultato che può essere raggiunto solo grazie a un capillare lavoro di frammentazione, di abbreviazione, di sintesi, per puntare al nucleo essenziale del pathos, proprio e altrui.

Per quanto lungo, il cammino che ha portato Idea Vilariño ad arrivare fin qui è stato fin dagli inizi coerente: i testi che si sono andati aggiungendo nelle diverse edizioni dei libri, sono poco a poco diventati epifanie essenziali, nuclei di senso depurati di ogni arsenale retorico consueto, metafore o altri artifici che possano nascondere la realtà della vita, in una dimensione aforistica in cui sempre più spesso l’io si diluisce in un’identità indefinita, approdando a una solitudine assoluta.

In questo itinerario di spoliazione, i temi che tornano nella scrittura di Idea Vilariño sono inevitabilmente nodali: l’amore e il disamore, la vita, la morte, la perdita, la solitudine, affrontati sempre dalla concretezza del vivere quotidiano, partendo da un corpo che è il vero asse portante della poesia: un corpo esposto, ferito, smembrato e poi ricomposto sulla pagina per affrontare il vuoto dell’assenza. Questa lotta produce spazi in cui il non detto si rivela al tempo stesso una scelta elettiva e un destino, e i cui riferimenti alla realtà sopravvivono in quanto segni residuali nel presente dell’enunciazione, resti di quel corpo reale, dolente e tormentato.

L’io poetico si mostra così nella sua nudità, sofferente, indignato, nostalgico, amareggiato, senza altra via di scampo se non il precipitare in un testo, dove quella realtà emozionale trova la sua espressione precisa, in una straordinaria intensità della versificazione. I testi sono composti, infatti, a volte, solo di una lunga frase, frammentata in versi di diversa lunghezza, in caduta verticale, come nell’accumularsi disordinato di idee che approdano alla pagina scritta in forme quasi diaristiche, effimere, conversazionali. Si realizza in questa forma il contributo di Idea Vilariño alla notevole tradizione della poesia colloquiale di lingua spagnola, dove l’uso del linguaggio quotidiano non diventa tramite di una banalizzazione del verso, bensì veicolo della realtà nel suo apparire immediato, senza mediazioni ulteriori.

Nessuno spazio viene dunque lasciato dalla poesia di Vilariño a possibili forme di consolazione, mentre la selezione severa delle variabili formali in grado di generare significato si riduce al minimo, producendo una versificazione di tipo verticale, in cui le assonanze interne costruiscono una linea per il digradare della voce poetica, un verso dopo l’altro, con parole ripetute e bruschi stacchi, fino a realizzare l’obiettivo di giungere della massima trasparenza del significato.

La ricerca di Idea Vilariño procede grazie a un lavoro centrato sul ritmo e sulla prosodia, aspetti della scrittura ai quali ha peraltro dedicato saggi importanti e informati dallo stesso rigore speso nell’impegno politico. Secondo la definizione di Henri Meschonnic, il ritmo è l’«organizzazione del movimento della parola nella scrittura», l’orchestrazione delle unità sonore e visuali di un testo che permettono anche una lettura a voce alta, di rivelare il respiro del contenuto, sulla scorta di un mai abbandonato interesse verso la musica, che troverà nei saggi sul tango la sua migliore dimensione.

La poesia di Vilariño si fa dunque successione di movimenti vibratori, regolati dai gruppi ritmici, dal succedersi degli accenti, un movimento che si coglie ancora nell’ottima traduzione di Laura Pugno (peccato solo per i non pochi errori di stampa, che una bella collezione come quella dei Capoversi non dovrebbe ammettere). Attenta a ogni dettaglio, la traduzione coglie infatti le pause, rispetta il succedersi nell’originale di vocali e consonati, le allitterazioni, i toni che, come scrisse la stessa Vilariño «intrecciano i propri ritmi e organizzano le loro strutture in modo da modificarsi mutuamente, lottando tra loro».

La struttura ritmica si propone così come l’ordine capace di resistere al nulla del mondo, al suo destino di morte, unica possibilità di riuscire a esprimerlo. Abitata dai silenzi, la poesia notturna di Idea Vilariño funziona come una sfida lanciata al lettore e al tempo stesso ai limiti del testo, una forma di costrizione ad abitare la coscienza della propria alienazione, in conflitto con un destino cui varrà comunque la pena di opporsi, un giorno dopo l’altro.