Per l’Unione europea, partorire uno strumento alternativo di pagamento per aggirare le sanzioni americane è stato complicato. Ci sono voluti otto mesi e nessuno Stato voleva assumersi la paternità di un bebè che rischiava di essere soffocato nella culla dal presidente Trump. Difficilmente Bruxelles riuscirà a salvare l’accordo nucleare, ad evitare che le aziende europee non siano colpite da sanzioni e a tenere a galla l’economia iraniana: decine di imprese hanno già rinunciato a contratti di diversi miliardi di euro, basti pensare alla francese Total che ne aveva investiti cinque nello sfruttamento del giacimento di gas South Pars nel Golfo.

Eppure, per una volta, gli europei hanno avuto l’ardire di sfidare l’egemonia del dollaro, imponendo l’euro come valuta di riferimento per conteggiate gli scambi. E alzando così la testa di fronte ai diktat americani.

Andiamo con ordine. Lo scorso maggio l’amministrazione Trump aveva deciso, in modo unilaterale, di ritirarsi dall’accordo nucleare con l’Iran e annunciato un nuovo embargo che avrebbe messo fine al business imbastito con la Repubblica islamica. In risposta, l’Unione europea aveva dichiarato di voler trovare il modo di mantenere in piedi l’accordo e aggirare le sanzioni. Otto mesi dopo, i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Regno unito hanno finalmente annunciato di aver costituito un meccanismo speciale chiamato Instex (Instrument for Supporting Trade Exchanges), un sistema alternativo di pagamento tra l’Iran e l’Unione europea per mezzo del baratto, con l’obiettivo di sottrarre le operazioni di import/export all’applicazione delle sanzioni americane.

L’entità Instex Sas è un meccanismo complicato. La sede è a Parigi, il presidente è un banchiere tedesco. Gli azionisti sono la Germania, la Francia e il Regno unito, ovvero i tre paesi europei che il 14 luglio 2015 avevano firmato l’accordo nucleare con Teheran. Inizialmente potranno utilizzarlo le piccole imprese ma non le grandi che tanto lavorano sul mercato americano. Sarà operativo nei settori non soggetti a sanzioni statunitensi, ovvero nel farmaceutico, agricolo e medicale, e quindi con imprese che potrebbero fare transazioni utilizzando i normali canali bancari avendo cura di evitare di appoggiarsi alle istituzioni finanziarie nella lista nera di Washington, tra cui la Parsian Bank usata abitualmente per questo tipo di commerci ma ora accusata di avere legami con le milizie basij.

Gli ulteriori dettagli operativi nonché le modalità di adesione da parte degli altri stati europei verranno gradualmente definiti elle prossime settimane in riunioni alle quali parteciperà anche l’Italia. Nel frattempo, «è pur vero che, quand’anche Instex Sas gestisse transazioni in settori vietati dalle sanzioni secondarie statunitensi, l’Unione europea dovrebbe garantire un sistema efficace per paralizzare gli effetti extraterritoriali della normativa Usa; al riguardo, si segnala che l’attuale Regolamento di blocco non offre alcuno scudo soddisfacente» osserva l’avvocato Marco Zinzani dello Studio Padovan di Milano. Di fatto, conclude il legale specializzato in sanzioni, «in assenza di misure di protezione adeguate, nulla impedirebbe alle aziende europee di diventare un facile bersaglio sanzionabile dalle autorità statunitensi».

Resta curioso l’atteggiamento della Cina che, come l’Italia, gode dell’esenzione di sei mesi per importare petrolio iraniano. L’impressione è che i cinesi diano un colpo al cerchio e l’altro alla botte. Lo scorso 20 dicembre la banca di Kunlun, il cui azionista di maggioranza è la China National Petroleum Corporation (Cnpc), aveva infatti dichiarato che a fine di aprile rinuncerà a fare transazioni con Teheran, a dimostrare il fatto che alla dirigenza cinese sta più a cuore il business con l’America che quello con l’Iran. Di pari passo, la Cnpc ha però pronto un miliardo di euro per acquistare una quota del giacimento South Pars. All’occorrenza, i cinesi potrebbero quindi fare lo sgambetto a Washington e decidere di sostituire il dollaro con l’euro.