Due ante dipinte d’un verde tenue, impreziosito da una velatura color rame. Screzia la superficie lignea e illude la levigata materia di certo marmo prezioso. O quella d’una sottile lamina metallica. Piccole ante (ognuna misura circa venticinque centimetri) d’una chiusa porta centinata sotto un arco dorato. Ai piedritti dell’arco, profilati nell’oro fulgente, scorgi a sinistra l’Angelo Nunziante e, a destra, Maria che ne ascolta le parole. Aperta, la piccola porta, dischiude una luce che abbaglia.

Nello splendore dell’oro, ciascuna anta, ai lati di uno sfavillante comparto centrale, è un’ala che accoglie sulla sfoglia d’oro, per simmetrie calcolate, sei capitali episodi che, dalla Natività nella grotta alla Deposizione nel sepolcro, illustrano la vicenda umana del Cristo. Avvolta nella veste blu cupo, riconosci la Madre presente agli eventi del dolore e della morte del Figlio. Nella Flagellazione e nell’Andata al Calvario. Nella Crocefissione e nella Deposizione dalla Croce. E quando il corpo viene calato nel sepolcro. Minuscoli, vibranti scenari nei quali si anima la concitazione dei personaggi coinvolti. Spiccano i loro gesti di disperazione. Risaltano ora la crudeltà e lo sconforto, ora il pianto e la pietà.

Quanto più accosti l’occhio, tanto più ogni scena si amplia nella propria inderogabilità, assurge alla sua piena magnificenza. Le passioni vive, intatte nell’inalterato fulgore che resta una volta per sempre. Il medesimo abbaglio ti attrae nella pagina centrale (al lato settanta centimetri, alla base cinquanta). Al sommo la Madonna è incoronata, tra gli Angeli e il Battista e l’Evangelista e al centro sta in trono, in braccio il Bambino, tra i santi Paolo e Pietro. Ai suoi piedi un devoto in atto di adorazione, la veste purpurea, cinto d’una regale corona la testa. Al margine inferiore, quasi una collana, otto fra santi e sante testimoniano la gloria della Vergine.

Questo mirabile tabernacolo, dall’assunto unitario nella triplice scansione dorata, risale ai primissimi anni del Trecento ed è conservato a Siena, nella Pinacoteca Nazionale. Ho indugiato nella descrizione di quest’opera dall’altissimo tenore espresso in stilemi ducceschi ad un grado di rara elezione, conservatasi relativamente indenne nella sua integrità.

Un fascino che ha richiamato l’attenzione degli studiosi e dei cultori e conoscitori d’arte fin dagli anni Sessanta dell’Ottocento e si è moltiplicato nei primi anni del secolo successivo, quando l’interesse della critica per i primitivi senesi crea una attrattiva tra i collezionisti e muove il mercato antiquario. È allora, intorno al 1925, che il Tabernacolo 35 viene prescelto da Icilio Federico Joni come riferimento per l’elaborazione di alcuni falsi ducceschi che avranno un favorevole esito tra collezionisti e critici. Il tabernacolo era attribuito da alcuni studiosi alla mano di Duccio, da altri ad un suo strettissimo collaboratore.

A seguito dei suoi studi sulla Maestà, James H. Stubblebine, nel suo Duccio di Buoninsegna and His School pubblicato a Princeton nel 1979, annette al trittico alcune pitture che riconosce affini e giunge così, accostando gli Joni all’originale, ad ipotizzare una personalità di artista bene individuata. La designa, dal numero d’ordine dell’inventario della Pinacoteca, come «Tabernacle 35 Master». La sua mano Stubblebine riconosce nella piccola Maestà già in Collezione Adolphe Stoclet a Bruxelles. Il Maestro, scrive, ha qui ripreso «elementi ricavati da vari dipinti di Duccio», e i suoi cromatismi rivelano quella «speciale affinità del pittore con Duccio».

In Quadri antichi del Novecento Gianni Mazzoni ha minuziosamente ricostruito come la Maestà Stoclet sia un’opera realizzata appunto da Joni. Il grande falsario senese, acquisita una perfetta padronanza del modello originale, ne ha tratto varianti filologicamente compatibili, calibrate sulle valutazioni critiche degli studiosi per modo che essi vi potessero ritrovare i loro crismi di autenticità. Dunque la maestria di un grande falsario come Joni non sta soltanto nella capacità imitativa. Infatti, per essere accettato per vero, un falso d’arte, deve attenersi ai criteri di autenticità accreditati dal giudizio dei critici e degli storici dell’arte.