Visitando Paolo Icaro Antologia 1964-2019, curata da Elena Volpato per la GAM di Torino (fino all’1 dicembre), viene da chiedersi cosa potrebbe scrivere dello scultore torinese (al secolo Paolo Chissotti, Torino 1936) un pensatore dell’immagine come Georges Didi-Hubermann, in un ipotetico seguito delle riflessioni già condotte su Penone e Parmiggiani all’insegna del concetto di «impronta», che nel caso di Icaro andrebbe sostituito dal concetto aureo di «misura». All’ inizio degli anni settanta, infatti, Icaro aveva preso coscienza del proprio corpo nello spazio con le Misure intime (traiettorie aeree di filo metallico modellate su porzioni anatomiche suggerendo il percorso virtuale fra due punti del proprio corpo), precedute di qualche anno dalle «gabbie», basate sulle misure vitruviane dell’artista a braccia aperte che segna, come Luciano Fabro, lo spazio della propria presenza: anche la gabbia era un modo di rendere tangibile la concretezza di un luogo e, al contempo, di lasciare una impronta in assenza del corpo stesso.
Surrealista «Window Show»
Alla metà degli anni settanta, poi, una volta avuta la rivelazione del gesso come medium ideale (tutt’altro che neutro come spesso si è affermato), la «misura» poteva marcare la distanza fra il dito indice e il dito medio su un frammento di materia, accostando poi questa collezione di tracce in una surrealista Window Show a più ripiani; o, ancora meglio, registrare la traccia di un soffio che andava a increspare la superficie liquida di una macchia di gesso.
Al tempo stesso, pensando a un noto libro di Dino Formaggio, si aveva conferma di quanto la vocazione naturale del medium e dei conseguenti processi operativi fosse dirimente nei confronti dell’esito formale: per caratteri fisici e possibilità manipolatorie, prima ancora che per ragioni concettuali, Icaro non avrebbe potuto usare altro materiale che il gesso, e con questo abbattere, in sintonia coi suoi coetanei, certi stereotipi intorno alla scultura, pur non rinunciando all’esperienza tattile e concreta degli oggetti. Di qui potrebbe prendere avvio una storia del gesso nella ricerca plastica contemporanea, da giocare fra i poli opposti ma tangenti di Icaro e Giacinto Cerone, fra memorie «barocche» implicite nelle pontate di materia applicate alla prima, impulsi gestuali e rarefatte apparizioni sul crinale di una forma all’insegna della leggerezza e fragilità.
Sarebbe certo parziale ridurre Icaro a questo, trascurando l’intelligenza di una ricerca che ha recepito molte cose e fatto i conti col mainstream internazionale, sapendo però rifondere spunti e idee in una cornice coerente. Lo si vede bene sfogliando Faredisfarerifarevedere, la monografia curata da Lara Conte (Mousse 2016), dopo aver visto la mostra torinese: il misurato e selezionato racconto espositivo, fra scansione cronologica e abbrivi di poesia, procede rapidamente per approdare alla compiuta identità espressiva dell’artista. C’era anche lui ad Amalfi nel 1968, ma anche al Teatro delle mostre da Plinio De Martis e in altre occasioni cruciali dell’avanguardia sperimentale, dopo l’approdo a Roma nel 1963 da Torino – abbandonato lo studio di Mastroianni e dopo aver scoperto Lucio Fontana nel 1960 – e prima del soggiorno americano fra 1970 e 1981.
Ma già nelle Terrecotte di fine anni cinquanta, nate sotto l’urto della lezione fontaniana, Icaro aveva capito, sottolineava Lara Conte, che per la scultura come la intendeva lui erano sufficienti gesti semplici compiuti direttamente sulla materia. Al contempo, come ricorda Elena Volpato in catalogo, aveva lasciato il segno un’infanzia tra le macerie della guerra, «un mondo fatto di cose trovate tra la polvere dove l’improvviso bagliore di un vetro, di un frammento di specchio o il semplice spuntare di un colore acceso fra i cumuli di mattoni e legni incrostati di intonaco e calce, poteva suscitare il senso di un racconto». Di lì era possibile risalire a Medardo Rosso e a Giacometti, precursori nobili dell’arte del gesso e dell’idea della scultura come frammento, con una progressiva sfumatura esistenziale, tenendo negli occhi, sempre secondo la Volpato, la drammatica lacerazione esistenziale della Pietà Rondanini a Milano: per un momento Icaro poteva essere «il più radicale dei neoplatonici», se non avesse poi posto l’accento sul concetto di luogo e sulla compenetrazione fra la scultura e lo spazio.
È però nello studio di Woodbridge, dove si installa nel 1972, che avviene uno scatto in avanti, come sottolinea sempre la Conte, ma in catalogo: non basta lavorare sul singolo pezzo, ma portando memoria degli anni di immersione nelle istanze concettuali l’artista non poteva fare a meno di vedere le sculture nel proprio studio come una vera e propria messa in scena fatta di protagonisti e comprimari. Una famosa fotografia di quel luogo, scattata nel 1979, fa infatti un effetto non tanto diverso dalle teatralizzazioni del proprio atelier immortalate da Costantin Brânçusi in un’infinita serie di fotografie che riducevano, forse in chiave surrealista, la distanza fra l’opera finita e il luogo di lavoro: non c’è più differenza fra spazio privato e spazio pubblico, perché ad essi sovrintende la stessa logica, che fa della mostra temporanea un «luogo di creazione e di azione che ovunque può riattualizzare lo spazio dello studio». Non è di poco conto, forse, che i primi tre mesi del soggiorno a New York Icaro li avesse trascorsi presso Claes Oldenburg, dove la scultura era prima di tutto una presenza spaesante nello spazio. Ma in quel momento l’artista torinese si stava muovendo in una direzione diversa, per quanto non fosse mancata una tangenza «pop» di scultura in metallo smaltato, assente in mostra, che dava risalto ludico a un’esperienza che Giuseppe Marchiori, nel 1966, aveva potuto accostare a quelle di Carlo Lorenzetti e Gino Marotta.
Omaggio programmatico al blu Klein
Ma Icaro avrebbe abbandonato presto quella cromia timbrica da carrozzeria automobilistica, per la più classica e diafana monocromia: pochi e calibratissimi punti di colore costellano qua e là la sua produzione, come accenti isolati, dalla citazione esplicita e forse dissacratoria di una spugna industriale intrisa di blu in un programmatico omaggio a Yves Klein a macchie di giallo e di rosso che rompono l’austerità di strutture minimali. L’accento dominante, infatti, sarà il bianco sordo (questo sì neutro) del gesso e la sua concrezione agglutinata di materia che non ha una struttura portante ma si aggrappa a qualsiasi supporto venga applicata: ecco allora le cornici, i marcapiani attorno a cui si animano spatolate di materia come presenze organiche e vitali che insidiano la regolarità della geometria elementare e ripensano la classicità dei partiti architettonici e delle strutture regolari. Tutto sta nel discrimine necessario fra liquidità del medium e sue possibilità di manipolazione ai vari stadi di solidificazione, sullo scollamento fra leggerezza fisica del materiale e peso visivo della massa.
È così possibile issare su picche filiformi di memoria melottiana grumi di materia fluttuanti; oppure integrare materiali effimeri come rami o frammenti di metallo in totem o steli di un misterioso rituale arcaico e primitivo, immerso in un biancore che assorbe la luce e offre un’atmosfera di rarefazione metafisica. I moduli, in fondo, afferiscono a un repertorio elementare: gesti semplici per icone spoglie che esibiscono sulla scena la loro ineffabile, disadorna fragilità. In fondo Icaro lo aveva già affermato alla metà degli anni settanta: la scultura prende vita con un soffio.