«Né Edgard Allan Poe, né un altro scrittore capace di inventare le storie più truculente, avrebbe mai potuto scrivere un racconto pieno di malvagità e perversione come quello che hanno redatto con sangue, lacrime e veleno Delfina e María de Jesús González Valenzuela, sorelle incredibilmente bestiali, note nel mondo della malavita come le Poquianchis. Queste donne hanno superato le idee e i metodi dei nazisti!».

A metà degli anni sessanta, affermazioni del genere si potevano leggere su buona parte della stampa messicana e in particolare sulla rivista Alarma!, che aveva aumentato vertiginosamente le tirature grazie alle due «sataniche sfruttatrici del vizio», proprietarie di tre bordelli tra lo Stato di Guanjuato e quello di Jalisco. Le Poquianchis (ovvero «puttane») compravano o rapivano ragazzine che costringevano a prostituirsi, sottoponendole a una disciplina quasi militare e ad aborti brutali, per poi rivenderle quando le giudicavano troppo «vecchie».

Dopo anni di lucrosa attività, però, la prostituzione venne di colpo proibita da un governatore ambizioso e le sorelle nascosero le donne in un rancho isolato, in attesa di tempi migliori; là, in quanto «improduttive», le affamarono e tormentarono per mesi, finché una riuscì a fuggire e la polizia liberò un gruppo di ragazze scheletriche, scoprendo per di più un cimitero clandestino in cui erano sepolte dozzine di prostitute morte per i motivi più diversi, dalla fame ai pestaggi, dalle fucilate alla mancanza di cure mediche.

IL PROCESSO alle Poquianchis fu una manna per i giornali che, tuffandosi nel mare dell’iperbole fabulatoria, trasformarono la vicenda in un colossale grand guignol di cui si trova ancora traccia nella cultura popolare, ma anche in film, documentari, studi accademici, libri-inchiesta. E mentre i giornali dispiegavano un repertorio di nefandezze (si insinuò perfino che le sorelle fossero adoratrici del diavolo) e ricordavano compuntamente i lettori l’importanza dei valori morali, il caso divenne oggetto di disputa politica, in quanto intreccio di corruzione, traffico di influenze e collusioni con settori della polizia e dell’amministrazione pubblica.

Le due sorelle Delfina e María de Jesús González Valenzuela

Fu a tutto questo che si ispirò Jorge Ibargüengoitia, cui dobbiamo alcuni fra i migliori romanzi latinoamericani del Novecento (altri ne avrebbe scritti, se non forse morto nel 1983, a cinquantacinque anni, in un grave incidente aereo), per il suo Le morte, che torna dopo molti anni in libreria (La Nuova Frontiera, traduzione di Angelo Morino, pp. 176, euro 15), a confermare la singolarità di questo autore messicano, per molti versi in anticipo sui tempi e capace di costruire macchine narrative invariabilmente perfette.
In un articolo per la rivista Vuelta Ibargüengoitia scrisse, a proposito di Le morte: «Sulle bugie dette dalla stampa e le verità che dimenticò di dire si potrebbe scrivere un altro libro. Il tema mi ha interessato per la repulsione che mi provocava: la storia era orribile, la reazione della gente era stupida, quello che dicevano i giornali era così idiota da sfiorare il sublime…».

Trovare la voce giusta per narrare una storia del genere non era facile, e, anche se Le morte apparve nel 1977, lo scrittore accumulò per quasi un decennio materiali e appunti, tanto da introdurre in un’altra sua opera – Estas ruinas que ves, del 1975 – un personaggio deciso a scrivere un libro sulle Poquianchis.

SCELSE, ALLA FINE, un procedimento annunciato già nell’epigrafe («Alcuni dei fatti qui narrati sono reali. Tutti i personaggi sono immaginari»), pensata per sottolineare che Le morte non è un romanzo-verità o una cronaca, ma il suo opposto: parte infatti da una vicenda autentica per leggerla secondo un’altra ottica e all’occorrenza modificarla (le sorelle diventano Angelica e Serafina Baladro, il Guanajuato si trasforma in Plan de Abajo, vengono introdotti personaggi immaginari), e demolire attraverso la finzione letteraria quella che si è addensata intorno alla realtà.

A partire dalla testimonianza di un fornaio sopravvissuto a un’assurda spedizione punitiva, ci inoltriamo nella crudelissima «normalità» di un mondo in cui nulla sfugge a un ridicolo atroce – il Casino del Danzón, per esempio, viene inaugurato tra bandiere messicane e slogan patriottici nel salone-bar che evoca il fondo del mare, con razze di gesso e squali di gomma appesi al soffitto -, e perfino il processo appare così arbitrario da assomigliare a una parodia, un vago e incoerente simulacro di giustizia, in cui l’avvocato difensore dichiara che, se fosse per lui, condannerebbe le sue clienti alla pena di morte.

LE SORELLE (due donnette religiosissime, dall’aspetto di beghine) in realtà non hanno mai ucciso con le proprie mani, ma al di là dell’omicidio è un altro il delitto che davvero interpella la società intera (i padri che vendono le figlie, i cittadini modello che frequentano le prostitute, i corrotti che guardano da un’altra parte, i giornali che si avventano sulla vicenda e il pubblico che vuole più cadaveri) e la rende complice: disporre degli esseri umani come di proprietà da far fruttare, in sintonia con un’impeccabile logica mercantile. Le Baladro non sono sadiche serial killer, come ancora oggi vengono dipinte, ma donne d’affari che si muovono in base al calcolo di costi e benefici; i loro libri di magia nera sono quelli contabili, l’obiettivo è il successo economico fondato su una mano d’opera annichilita e truffata, corpi «a perdere» che, quando non servono più, vengono trattati come rifiuti tossici da smaltire di nascosto.

Il romanzo è composto da testimonianze, monologhi, rapporti di polizia, titoli e trafiletti di giornale, documenti processuali presentati non in ordine cronologico, ma frammentario: voci diverse che dialogano tra loro, permettendo a chi legge di notare contraddizioni e incongruenze e azzardare una ricostruzione personale dei fatti. A disporre i pezzi del rompicapo, un narratore che non si presenta mai come onnisciente e non esprime opinioni né giudizi morali, lasciando che la storia si spieghi da sola.
Alla mescolanza di materiali, voci e toni si unisce quella dei generi, che proietta il testo verso l’estetica postmoderna e al tempo stesso sembra smentirla. Le morte, traboccante com’è di cadaveri e di gesti efferati, scivola infatti verso il noir e l’horror ma fa sorridere fin dalle prime pagine, adotta alcuni aspetti formali del poliziesco ma non contiene investigazioni né misteri, si presenta come realistico ma è dominato da un sapiente uso del grottesco, che mette in questione sia le convenzioni e i limiti del discorso giudiziario, sia il linguaggio morboso e sensazionale dei giornali scandalistici.

HUMOR E IRONIA, che nel romanzo si colorano di nero e sono resi più pungenti da una scrittura limpida, distante e spassionata, rendono sopportabile l’orrore senza negarlo e colpiscono immancabilmente i bersagli comuni a tutta l’opera di Ibargüengoitia: la doppia morale pubblica e privata, l’ipocrisia, la corruzione delle istituzioni, della polizia, di un sistema politico e giudiziario al servizio degli interessi di un’élite, la violenza che segna da sempre il Messico, il lato perverso del buon senso, le grandi zone oscure in cui le donne corrono rischi inauditi (un tema divenuto, in questi anni, tra i più importanti della letteratura latinoamericana).

Non c’è dubbio che il romanzo sappia sinistramente e magistralmente divertire, ma il suo umorismo corrosivo e pessimista (che accomuna Ibargüengoitia a Swift, Waugh e Chesterton) non intende farsi beffe di situazioni e personaggi, quanto prendere di mira le certezze che giustificano l’abuso. Proprio per questo, si potrebbe concludere che Le morte è il romanzo più «serio» tra quelli dell’autore messicano, che forse aveva ragione nel rifiutare l’eterna – e secondo lui riduttiva – etichetta di umorista: «I testi che ho scritto, buoni o cattivi, sono gli unici che posso scrivere. Se sono brillanti è perché sono brillante, se sono arbitrari è perché sono arbitrario, e se sono umoristici è perché vedo le cose in questo modo, il che non è una virtù né un difetto ma una peculiarità. Nient’altro».