John Rebus è invecchiato, non sta troppo bene, ma non riesce a separarsi dal suo lavoro di detective. Malgrado sia in pensione da anni ha accettato di occuparsi dei vecchi casi insoluti che riempiono l’archivio della polizia di Edimburgo. Diversi decenni dopo il suo debutto, il riservato poliziotto scozzese continua così a indagare tra le pieghe di una società dove emarginazione e miseria emergono sotto la superficie luccicante di un’immagine da cartolina turistica. Come fa nel più recente capitolo della serie che lo vede protagonista, Piuttosto il diavolo (Longanesi, pp. 388, euro 19,90). Al pari del suo creatore, lo scrittore Ian Rankin, tra gli ospiti del festival Libri Come in corso all’Auditorium Parco della Musica di Roma – dove oggi alle 16 dialogherà con Giancarlo De Cataldo -, divenuto da tempo uno degli autori più tradotti e venduti nel mondo, Rebus non sembra aver dimenticato il significato più profondo delle sue inchieste.

Sono passati trent’anni, e oltre una ventina di romanzi, dalla pubblicazione di «Cerchi e croci», la prima indagine del commissario John Rebus, come siete arrivati fin qui?
La spinta a scrivere mi è venuta dal desiderio di raccontare la vita a Edimburgo, affrontare il mistero che questa città ha sempre rappresentato per me. Volevo parlare delle condizioni sociali e politiche della Scozia, riflettere sulle trasformazioni in atto nella mia terra. Così, quasi per caso, mi sono trovato a scrivere un noir. Pagina dopo pagina mi sono reso conto che stavo cercando di andare per quella via oltre la superficie delle cose. Rebus è nato così, per farmi da guida in questa realtà complessa. E non ha più smesso.

All’inizio, voleva insegnare letteratura. La sua tesi di dottorato era sulla scrittrice scozzese Muriel Sparks. Eppure le sue storie fanno pensare piuttosto a «Jekyll e Hyde» di Stevenson, un altro suo illustre connazionale…
Il mio interesse per Sparks passava anche per Stevenson, che considero un po’ come l’inventore del romanzo giallo. Nel senso che lei stessa, nel suo libro più famoso, Gli anni fulgenti di Miss Brodie, si era ispirata alla figura del diacono William Brodie, un criminale del Settecento che era servito, a sua volta, da spunto per l’autore di Jekyll e Hide. Così, con Cerchi e croci cercai di riprendere le idee di Stevenson. In ogni caso, e citerei anche Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes che ambientava le sue storie a Londra ma era scozzese, credo di aver cercato di inserirmi nel solco di questi autori che hanno raccontato misteri e contraddizioni della Scozia.

Grazie al suo successo, il personaggio di Rebus si è trasformato in una sorta di attrazione turistica a Edimburgo. La città che lei racconta ha però più ombre che luci.
Quando sono andato a vivere ad Edimburgo, ho avuto subito l’impressione che esistessero due città: quella dei turisti e quella dove abita la gente normale, con i suoi quartieri popolari, i suoi poveri, i criminali e lo spaccio di droga. Probabilmente tutte le metropoli del mondo hanno simili problemi, ma ad Edimburgo è il modo stesso modo in cui la città è cresciuta che fa pensare a una realtà a due facce. Ci sono la città vecchia con i suoi vicoli bui e le sue stradine un tempo sordide, e la città nuova costruita alla fine del XVIII secolo con ampi spazi e palazzi luminosi. Stevenson stesso viveva in questa zona, nella sua famiglia avevano fatto presa le idee razionaliste e lo spirito scientifico, ma di notte frequentava la old town con i suoi ubriaconi, le prostitute, i poeti di strada e l’oppio.

Lei è arrivato a Edimburgo da ragazzo proveniente da un villaggio di minatori. Quali trasformazioni della società scozzese hanno trovato posto nelle indagini di Rebus?
Prima di tutto, quelle che hanno a che fare con il lavoro. La mia famiglia ha lasciato la cittadina di Cardenden perché la miniera di carbone in cui lavorava mio padre chiuse già alla fine degli anni Sessanta. Subito dopo è toccato anche all’industria pesante. In pochi decenni il volto della regione è cambiato totalmente. Nello stesso periodo, hanno preso avvio quei cambiamenti politici con cui si misura anche Rebus. La Scozia si è dotata di un proprio parlamento, si è pronunciata in un referendum sulla propria indipendenza. Infine, è arrivata la Brexit, con un esito paradossale e per molti versi preoccupante. La popolazione scozzese sta invecchiando, la nostra società ha bisogno di immigrati e invece quel voto, in tutto il Regno Unito, è stato prima di tutto un voto contro gli stranieri.

Nel 2014, in uno dei suoi romanzi, John Rebus ha votato «no» all’indipendenza della Scozia. Dopo la vittoria della Brexit il suo personaggio, e forse lei stesso, avete cambiato idea?
Sono meno testardo di Rebus e quindi più propenso a cambiare idea, anche se in questo caso non saprei cosa decidere. Non credo che il fatto di vivere in un paese indipendente mi farebbe sentire più scozzese di quanto già non mi senta adesso. Credo che l’indipendentismo potrà trovare nuovi sostenitori mano a mano che emergeranno le conseguenze sociali ed economiche della Brexit.

Vicende che ha affrontato attraverso il noir. Dopo tanti anni ha capito perché proprio questo stile l’ha aiutata a riflettere sulla realtà?
Credo perché si tratta di romanzi che si basano su una domanda fondamentale: perché gli esseri umani continuano a infliggere cose terribili gli uni agli altri? Tutti abbiamo dentro di noi la capacità di fare del bene o del male a noi stessi come agli altri. E la letteratura poliziesca ha questa grande capacità di affrontare l’ambiguità di fondo dell’animo umano e ciò che è in grado di costruire in termini sociali, politici ed economici.

Qual è il confine tra l’intrattenimento e la critica sociale?
Non credo che esista. Graham Greene divideva i suoi libri in due categorie, quelli più seri e quelli di intrattenimento. Solo che erano proprio questi ultimi, in realtà altrettanto seri e profondi del resto della sua produzione, quelli che i lettori hanno amato e amano ancora oggi di più.