Il legame che la narrativa di Ian McEwan intrattiene con la letteratura scientifica è discretamente esplicito, tra le righe dei suoi romanzi, e manifestamente dichiarato nei saggi in cui parla delle sue letture predilette. È dunque, probabilmente, un desiderio di condivisione ad avergli dettato la raccolta in volume di testi preparati per varie occorrenze e tutti centrati sul debito che i suoi libri, e prima ancora i suoi interessi, hanno mutuato dalla frequentazione della biologia, della fisica, della meccanica quantistica.

Alle meditazioni sulle proprie letture, McEwan estende quella stessa successione tra il prima e il poi, quella tensione, quella organizzazione dei materiali che governano le sue strategie narrative, ciò che rende particolarmente attraenti i saggi ora pubblicati sotto il titolo Invito alla meraviglia Per un incontro ravvicinato con la scienza (traduzioni di Susanna Basso e Norman Gobetti, Einaudi, pp. 128, € 14,00).

La passione per le ricerche di Darwin, uno dei suoi fari, dà fondamenta ai presupposti sui quali si basa quella intramontabile intellegibilità dei sentimenti umani, che rende universale l’esperienza delle letteratura. È la nostra teoria della mente a renderci possibile la comprensione, anzi la immedesimazione, nelle esperienze fittizie di un carattere romanzesco, sebbene abiti geografie e tempi da noi remoti.

L’interesse di McEwan per il mondo scientifico, e le ricadute nel racconto che ne derivano, sono, peraltro, niente affatto uniche, e hanno forse l’antecedente più illustre in Voltaire, il quale riportò, nelle sue Lettres philosophiques, la meraviglia con la quale assistette alla sepoltura di Newton, sistemato come un re nell’Abbazia di Westminster. A distanza di tre secoli, McEwan tenta di emulare la eccitazione che trapela dal resoconto delle teorie sull’ottica e sulla gravitazione di Newton nelle pagine di Voltaire, e spesso gli riesce.

È evidente, peraltro, l’adesione estetica che muove lo scrittore inglese verso le teorie scientifiche, la cui presa immediata sulla comunità – per esempio nei casi di Darwin a partire dal 1859 e di Einstein dal 1916 – è da addebitarsi non solo alla loro efficacia e alla loro veridicità ma anche, come scrisse il biologo americano E. O. Wilson, all’aspetto con cui si presentano: «L’eleganza, possiamo addirittura dire la bellezza, di ogni singola generalizzazione scientifica viene valutata dalla sua semplicità in relazione al numero di fenomeni che può spiegare».

Tutta la abilità del narratore McEwan si rende trasparente nel racconto di alcuni celeberrimi casi di competizione tra scienziati per affermare il proprio primato nella scoperta delle teorie che avrebbero portato il loro nome: esemplare, la vicenda di Darwin, che nel giugno del 1858 ricevette un pacchetto da un’isola delle Indie Orientali Olandesi contenente un breve saggio di Alfred Wallace, dove il naturalista gallese esplicitava molte tra le idee sulla evoluzione per selezione alle quali il destinatario stava lavorando da oltre vent’anni.

Darwin aveva indugiato nel rendere pubbliche le teorie che andava formulando e si ritrovava ora fra le mani, stupefatto e sconcertato, non solo un lavoro che bruciava il primato del suo, ma la richiesta di inviarlo a Lyell, perché lo pubblicasse. Avrebbe potuto negare di avere mai ricevuto la lettera, ciò che era grazie alle poste del tempo molto plausibile; invece mandò, commentando amaramente: «la mia originalità, qualsiasi cosa valga, verrà annientata».

McEwan annota, e aggiunge altri esempi di corsa alla affermazione del proprio primato – per esempio nel rapporto tra Einstein e l’eminente matematico pacifista David Hilbert – allo scopo di istituire un paragone con l’esigenza di originalità dell’opera letteraria, che dovrebbe far progredire «nel tema che affronta, nel modo in cui lo esprime – la nostra comprensione di noi stessi, e di noi stessi nel mondo».

Stabilite le debite differenze con le competizioni scientifiche, McEwan sembra indulgere nella rappresentazione dei letterati come sereni debitori della lezione dei loro venerati maestri, tralasciando le feroci conseguenze di quelle tante rivalità che da Marlowe a Shakespeare, da Flaubert ai propri contemporanei, portò Bourdieu a descrivere la comunità letteraria come una arena governata da strategie hobbesiane, e Harold Bloom a dedicare circa quarant’anni della propria lettura critica alla individuazione, caso per caso, di quella che chiamò l’angoscia dell’influenza. McEwan lo sa bene, naturalmente, ma da anni ormai l’agone scientifico lo appassiona di più, e i suoi saggi sono qui a dimostrarlo.