«Quando ho iniziato a comporre» — ricorda — «mi imbarazzava scrivere le parole e ancor più cantarle. La musica veniva quasi sempre prima dei testi, che cercavo di adattare di conseguenza. Poi, sempre più spesso, le due cose hanno iniziato ad arrivare insieme, anche in piccoli frammenti, un titolo, un verso… “really don’t mind if you sit this one out”...». Lanciato così en passant, lo strepitoso incipit di Thick as a Brick rischia di far concludere anzitempo l’intervista per k.o. tecnico. Dall’altra parte del telefono, Ian Anderson continua serafico a esporre il suo metodo compositivo. «In un mondo ideale musiche e testi andrebbero sempre fianco a fianco. Quando ciò non accade preferisco partire dalle parole: mentre le scrivi ti accorgi che hanno già un ritmo, un metro; le leggi ad alta voce e capisci che non sono qualcosa di monotòno, è un gioco di salite e discese, di cadenze, e la cadenza implica una melodia, viene tutto in modo naturale».

ABITUALMENTE coinvolti in un felice ménage con il dominio dell’immagine, i suoi versi stavolta ricorrono a riferimenti letterari non esattamente pop. In The Zealot Gene, nuovo album dei suoi Jethro Tull — l’enfasi sull’aggettivo possessivo è d’obbligo — ai versi di Ian fanno da didascalia quelli della Bibbia, lettura che gli è insospettabilmente gradita. «Especially Part 2», precisa lui, ribadendo di non essere un uomo di fede: «Non credo in un Dio interventista, e preferisco le probabilità alle certezze». Il richiamo agli zeloti del testo sacro, accaniti paladini dell’ortodossia religiosa, non è che un tratto allegorico per canzoni radicate nel presente.
«Utilizzo il termine nel senso di “fanatico”. Puoi essere zelota per Al Qaeda così come per la tua squadra di calcio. E uso la parola “gene” per riferirmi a qualcosa insito nella nostra natura di Homo Sapiens. I social traboccano di xenofobia, complottismo e nazionalismo di estrema destra, esasperando sentimenti di rabbia, gelosia, vendetta. Un tipo di emozioni che si incontrano spesso leggendo la Bibbia!». The Zealot Gene è il primo disco firmato Jethro Tull dai tempi del non certo imperdibile Christmas Album (2013). Dodici brani in cui queste «one-word emotions» si inseriscono in un’architettura ricalcata da quella dei concept album, reclamamdo un ascolto immune dalla frammentazione dello streaming.
«Credo ci sia tuttora spazio per questo tipo di lavori» — asserisce — «e il ritorno del vinile ne è una prova. C’è ancora chi dedica attenzione ai dischi, preparandosi all’ascolto come in un cerimoniale giapponese per il té: metti il vinile sul piatto, appoggi gentilmente la puntina, ti siedi, ascolti dall’inizio alla fine. Anche perché è noioso alzarsi, sollevare la puntina, cambiare disco…».

QUANTO alle sue abitudini di ascoltatore, Ian ammette di dedicarsi sempre più raramente alla musica altrui. A meno che non sia in aereo: «Odio volare, e al minimo segnale di turbolenza inizio ad ascoltare musica sperando che mi distragga dalla prospettiva di una morte imminente!». Il suo prossimo check-in è proprio per l’Italia: cinque date in una settimana da Varese a Roma. Scorrendo la sua imminente timetable il registro di Anderson si fa molto meno metaforico: «Siamo pronti a compilare l’entry form per l’Italia, fare i tamponi, indossare le nostre belle Ffp2. Mi sembra ci siano piccoli segnali di speranza, nel vostro paese, forse state per svoltare l’angolo; ma dobbiamo essere ancora molto attenti, per noi stessi, le nostre famiglie, i nostri amici, e nel mio caso la mia band. Il loro lavoro dipende dal fatto che io non prenda il covid. Infatti per estrema sicurezza ti sto parlando da sotto il mio letto! I’m just kidding…».

UN LEGAME non banale, quello tra i Jethro Tull e l’Italia, le cui antenne sono sempre state particolarmente ricettive per le onde del prog. Ian ricorda le collaborazioni con la Pfm e il valore del nostro milieu musicale, avanzando un’eziologia del fortunato sviluppo del progressive nei paesi latini: «Non che gli scandinavi siano meno attratti da questo genere, ma credo ci sia qualcosa di particolare, un misto tutto latino di emozioni e intelletto, lo stesso che si ritrova in tanti famosi registi italiani. Un tipo di creatività caratterizzata da passione e emozione, che non sono certo i sentimenti più tipici del prog!».
Il cerchio si chiude tornando al lessico delle emozioni, sottotesto di un album che ripropone i tratti pertinenti dei vecchi Jethro Tull pur senza candidarsi allo status di classico. Ritrovando certi fraseggi flautistici, certi blend di corde elettriche e acustiche, si potrebbe ravvisare un eccesso di zelo ortodosso anche nella scrittura di Ian. Lui assicura che, come musicista, la sua «one-word emotion» è ancora «Eccitazione. Una forma di amore erotico… Credi che a 74 anni non dovrei pensarci più?».