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Iain Chambers, immersioni nel suono lungo del mondo

Iain Chambers, immersioni nel suono lungo del mondoNapoli teatro festival: «Voci del Mediterraneo», ambienti di Palazzo Reale (Ph. Sabrina Cirillo)

Il libro Una nuova edizione per «Mediterraneo Blues» di Iain Chambers, da Tamu, neonata casa editrice napoletana sviluppatasi attorno all’omonima libreria indipendente

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 6 febbraio 2021

Nel 1997, Pino Daniele pubblicava il suo sedicesimo disco, dal titolo Dimmi cosa succede sulla terra. Tra il sordo tambureggiare di darabouka, strumento mediorientale usato dal bluesman napoletano nella prima traccia per aprire il sipario agli altri suoni, si fa strada Canto do Mar, una canzone che ci conduce a una precisa visione storica della musica, suggerendo quello sguardo obliquo e inquieto di una sonorità che per Daniele non è mai stato possibile costringere in un genere. «Figli di uno stereo nel Mediterraneo, figli di una storia che è arrivata da lontano»: è difficile trovare parole più adatte di quelle del compianto Pino – e delle melodie che le accompagnano – a raccontare un libro come Mediterraneo Blues. Musiche, malinconia postcoloniale, pensieri marittimi di Iain Chambers. Il testo, pubblicato per la prima volta nel 2012, trova oggi una nuova edizione, parzialmente rielaborata e accresciuta, (pp. 144, euro 10), tra le braccia di Tamu, neonata casa editrice partenopea sviluppatasi attorno all’omonima libreria indipendente napoletana, con lo slogan «il mondo visto da Sud».

Se Napoli fosse una canzone sarebbe, certo, un brano di Pino Daniele, ma anche un pezzo neomelodico da un balcone di primo mattino, forse un blues malinconico, potrebbe essere un mandolino che piange o l’immensa voce di un tenore. Difficile stabilirlo proprio a causa della natura meticcia e mutevole della città; e da dove, se non da qui, situarsi per guardare al mondo e provare a capire «cosa succede sulla terra», accompagnati dalle parole che Chambers intreccia con ritmo intenso ed eleganza melodica nelle pagine di questo piccolo, prezioso libro?

Dalla club culture di Nairobi alle piazze del Cairo, teatro delle primavere arabe, Chambers ci guida in un viaggio sonoro che ci ricorda che vivere nel cuore della città mediterranea è essere invasi dal suono, inciampare in esso, come in una sonorità che chiede di essere vista. Tra i canti delle ragazze all’angolo della strada che si fondono col tufo giallo e muezzin che chiamano alla preghiera, incontri ricorrenti con tenori vagabondi, sempre alla ricerca di archi, volte e luoghi con un’acustica perfetta, piazze della vita notturna, enormi palcoscenico senza più quinte, scontornati e senza norma fissa: è in questo frammento di vita urbana che si può riconoscere l’urgenza delle cittadinanze minori a manifestarsi; ciò a cui si abituano i sensi è la confusione tra giorno e notte, feriale e festivo, privato e pubblico, silenzi e frastuoni.

Lo studio della musica e del suono sono, per Chambers, mezzi attraverso cui ridefinire le memorie storiche del Mediterraneo, storie «minori» in cerca di una giustizia che da Sud s’impone su tutto il resto d’Europa e del mondo: in questo senso, Mediterraneo Blues spinge a delle riflessioni profonde su come la musica ed, in particolare, il suono possano essere strumenti per la riaffermazione di altre soggettività. La riflessione storiografica è centrale nel libro di Chambers, ripensando la Storia non più come un lineare susseguirsi di fatti in semplice progressione, ma in rottura esplicita con tale linearità a senso unico: anche in questo caso, la musica ci viene in aiuto come possibile forma di narrazione storica altra, perché materia fluida, capace di attraversare i confini passando per etnie, nazioni e linguaggi diversi. L’arte musicale rappresenta sempre un divenire, una potenzialità, una storia non ancora narrata; non è più oggetto di studi bensì ispiratrice di un pensiero nuovo. Lo spazio del Mediterraneo – foucaltianamente, eterotopico – è il veicolo di queste storie «minori»: uno spazio illecito, oggi sede di conflitti, luogo di morte e confini, dove il transito di vite umane è considerato fuori legge, ma che in questo caso tiene insieme e non separa.

Il mar Mediterraneo come l’occasione di aprirsi a nuove interpretazioni del pensiero, dell’identità, per far posto, anche, alla consapevolezza di un passato coloniale mai sopito; questo mare rappresenta, per dirla con Gramsci, «un’infinità di tracce accolte senza il beneficio di un inventario».

Ci misuriamo con una narrazione dell’attraversamento – di tutte le frontiere, ma soprattutto di quelle liquide del Mediterraneo – assolutamente aperta, poetica e poietica, creatrice di culture e di suoni che sono veicoli di nuove identità culturali, opposte alle anguste identità nazionali. In questo turbinio di emozioni e melodie, suona quasi beffardo che questo libro torni in libreria proprio nel 2020, l’anno che ha spinto a ripensare la mobilità – interna ed internazionale – anche chi, garantito dal possesso della cittadinanza europea, è sempre stato abituato a considerare la propria libertà di movimento come diritto naturale ed inalienabile. Stuart Hall – non a caso, uno dei maestri di Chambers – aveva giustamente intuito che la globalizzazione stesse rendendo generali le esperienze particolari – culturali e soggettive – delle comunità diasporiche, cioè che fosse una condizione in grado di trasformare ognuno di noi, all’improvviso, in «un migrante».

Allo stesso modo, in questa fase storica ci troviamo ad affrontare l’esperienza generalizzata della limitazione della libertà di movimento, che mette in questione i nostri privilegi e ci forza a ripensare il modo, a volte troppo lusinghiero, in cui abbiamo guardato al «nomadismo» come metafora e rivendicazione politica, dimenticandone il carattere inegualitario e disegualmente doloroso.

Ecco, dunque, che accanto alla malinconia – protagonista del libro in quanto caratteristica strutturale della modernità occidentale – si fa spazio un altro sentimento, che sembra esserne il convitato di pietra: la nostalgia, etimologicamente, «il dolore del ritorno». Sentimento che connota il vero e proprio archetipo dell’attraversatore del Mediterraneo, quell’Odisseo «dai molti percorsi» che tante volte si era lasciato sedurre dal suono di infinite sirene e che forse era stato il primo personaggio della letteratura europea a sperimentare l’impossibilità – non solo materiale, ma anche e soprattutto emozionale, cognitiva, sensoriale – di tornare, veramente, a casa. Poiché in questo presente liquido – liquido come le acque del Mediterraneo, che già Omero definiva «color del vino» e che oggi sono troppo spesso arrossate dal sangue di chi sembra non avere diritto a questo attraversamento – la nostra stessa esperienza di «casa» – intesa come comunità e paesaggio sensoriale, fatto di affetti tanto quanto di odori, sapori e, non ultimo, suoni – si scompone e ricompone infinite volte, in un gioco di specchi che parimenti moltiplica le nostre stesse identità.

Non si può mai davvero tornare a casa, poiché la migrazione cambia non solo il soggetto che la compie, ma anche la geografia stessa dei luoghi attraversati da chi parte e da chi arriva, e, allo stesso tempo, non si può – e non si vuole – tornare alle nostre identità prestabilite, cariche di eredità storiche tanto spesso escludenti e sopraffattorie: questa una delle più importanti «lezioni dal Sud» – come recita il titolo del capitolo inedito inserito nella nuova edizione – da apprendere, situandosi in luoghi le cui storie sono, indissolubilmente, «storie di chi parte e di chi resta».

È così che tornare a casa diviene, anche, un esercizio di memoria, talvolta eternamente frustrato poiché impossibile. In questo senso, i suoni e le musiche costituiscono un nuovo paesaggio, un nuovo senso dei luoghi, un nuovo modo di abitare il mondo; un modo – talvolta malinconico, talvolta nostalgico, ma eternamente mobile – di sentirsi a casa, per tutti e tutte, poiché, nelle parole dell’autore, «Il suono narra, e smuove un legame affettivo (un ricordo, un luogo, una traccia) evocando un territorio temporaneo e una casa transitoria nel mondo».

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