Per Nidhal Chamekh, nato a Dahmani nel 1985 (studi alla Scuola di belle arti di Tunisi e poi alla Sorbona di Parigi, vive fra le due città), storia e memoria sono tasselli di un puzzle che dalla dimensione collettiva «slitta», a volte, in quella intima, incidendo una cartografia che comprende anche elementi autobiografici.

Disegno, installazione, fotografia e video sono i linguaggi che intreccia per raccontare – con una forte temperatura politica – le trame della società contemporanea, spesso radicate nelle eredità (anche scomode) del passato. Con il suo metodo di frammentazione e presa diretta (che relativizza la realtà e soprattutto sbaraglia le famose «verità in tasca»), Chamekh aveva narrato anche La Jungle di Calais. Nel 2016 e 2017, l’artista documentò i tumulti – sempre con la sua speciale tecnica cinematografica di montaggi incrociati – che portarono poi allo smantellamento del campo.

Il suo progetto Nos visages è ora esposto nella suggestiva cornice della Rocca Colonna, nell’ambito della decima edizione del festival Castelnuovo Fotografia (la rassegna è visitabile ancora questo weekend, con talk, incontri, letture di portfolio e l’offerta di una panoramica sull’editoria fotografica attraverso gli stand dei professionisti del settore), che vede la direzione artistica di Michela Becchis e Elisabetta Portoghese.

Può spiegarci la scelta dei volti anonimi dei soldati per raccontare, da un punto di vista obliquo, il colonialismo francese?

La presenza di truppe provenienti da ex colonie ha attirato la mia attenzione. Quella che comunemente viene chiamata «guerra mondiale» è stata, in realtà, un conflitto tra diversi imperi dell’occidente e i paesi del sud, per la maggior parte colonizzati e costretti ad arruolarsi,nonostante quella ostilità non appartenesse loro.

Migliaia di soldati di quei territori furono catapultati nell’inferno di una guerra esclusivamente occidentale: era questo aspetto della storia ufficiale ad interessarmi. Tanto più che quegli stessi militari che hanno partecipato allo sforzo della Liberazione sono stati poi completamente cancellati dalla narrazione mainstream… In Francia, questo fenomeno viene definito «il riciclaggio delle truppe francesi» (blanchiment, lo «sbiancamento»).

Ovviamente è accaduto in modi simili in quasi tutti i paesi occidentali in conflitto. Sono, quindi, proprio quei volti di sconosciuti, identità silenti, a narrare qualcosa di diverso riguardo la «guerra mondiale».

A dire il vero, mi sono imbattuto per caso nei loro ritratti in una rivista di propaganda militare dell’epoca. Si trattava di articoli giornalistici sui soldati dell’Impero, testi intrisi di orientalismo e razzismo. «Ricalcare» semplicemente i loro ritratti era un esercizio che però non mi convinceva del tutto. Ho allora vagliato un’altra possibilità: lo strappo di un disegno e la sua giustapposizione con un secondo. Era questa la traccia più intrigante.

L’approccio consisteva nel continuare a «prelevare» le immagini ritagliandole casualmente e poi trovando combinazioni tra i pezzi per creare nuovi volti. La serie ha poi preso altre strade, essenzialmente i disegni sono stati trasferiti su tessuto. Mi affascinava il loro legame con gli striscioni ad inchiostro, rappresentava un omaggio.

Cosa vogliono significare le ibridazioni di identità che sono prodotte attraverso i disegni? Tendono una rete tra passato e presente?

Non so se tutto ciò si può tradurre in un nuovo «discorso», quello che è certo è che per me è stata l’unica soluzione possibile di fronte a volti di uomini anonimi. Invece di cercare altrove tentando di «riempire» quella cancellazione, o di camuffarla, mi è sembrato più sensato dare ulteriore evidenza alla «ferita».

L’ibrido è un soggetto frammentario che fa di quella frattura la sua stessa essenza. È come un’irruzione improvvisa, racconta qualcosa anche del mondo a noi contemporaneo – gli esiliati, le figlie e i figli degli immigrati. I volti ibridi non rappresentano tout court il legame tra passato e presente, ma possiamo cogliere in essi un’eco che li riconnette alla nostra condizione attuale.

Quali sono le tracce del colonialismo nella storia della Francia odierna?

Il colonialismo è un elemento costitutivo di tutti gli imperi occidentali, è al centro del capitalismo moderno, l’elemento della sua accumulazione primitiva. È presente ovunque ma a livelli diversi, a seconda del paese. Quello italiano preparò il terreno e le condizioni necessarie per l’affermazione del fascismo, ne fu una delle matrici essenziali. Ciò spiega in parte la presenza materiale e simbolica del colonialismo negli edifici e negli spazi pubblici italiani. In Francia, bisogna risalire a ben prima nella scala cronologica, a un periodo comunemente considerato come un’epoca di «progresso», di «lumi».

Il fatto che il colonialismo sia un’articolazione del Secolo dei Lumi, tanto quanto l’Universalismo, è difficile da digerire anche oggi. È quindi necessario avere altre griglie di lettura, seguire differenti approcci, andando pure contro il buon senso per riuscire a rintracciare la «colonialità» ancora all’opera nelle nostre società.

SCHEDA

Il premio Bastianelli, alla sua 18/a edizione, per il miglior libro fotografico è andato a «The absence» di Attilio Solzi (editore 89 Books). «Diverse prostitute si possono trovare lungo l’autostrada Paullese che collega le città di Milano e Cremona. Alcune di loro si sono dotate di sedie. Usate principalmente la notte, le sedie restano abbandonate durante il giorno. Per un anno ho fotografato una di queste sedie la mattina presto o nel pomeriggio, nell’esatta posizione in cui la prostituta l’aveva lasciata». Migliore opera autoprodotta «Young» di Martina Zaninelli, menzioni speciali a Prison museum» di Nicolò Degiorgis (Rorhof), « Scalandrê» di Marco Zanella (Cesura Publish), «The long way home of Ivan Putnik, truck driver», Vaste Programme (The Eriskay Connection)