Cultura

I vizi dello sfruttamento non si sconfiggono solo a colpi di leggi

I vizi dello sfruttamento non si sconfiggono solo a colpi di leggi

SCAFFALE «Agricoltura senza capolarato», a cura di Fabrizio di Marzio

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 21 ottobre 2017

È sufficiente una legge di impianto penale per tutelare il lavoro agricolo dallo sfruttamento e introdurre elementi di giustizia sociale nell’economia agricola capitalistica? A questa domanda risponde il libro Agricoltura senza caporalato (Donzelli, pp. 206, euro 29), curato da Fabrizio Di Marzio, consigliere della Corte suprema di cassazione, per la Fondazione «Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare», promossa da Coldiretti.

IL TESTO RICONOSCE la rilevanza delle norme più recenti in materia, «un arsenale di misure a disposizione dei giudizi», frutto anche delle mobilitazioni dei e delle braccianti, partite nel 2011 con lo sciopero autorganizzato di Nardò da parte dei lavoratori immigrati che si ribellarono all’ulteriore riduzione della paga a cottimo.
La Legge 148 del 2011 introdusse nel codice penale il reato di caporalato, definito come intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, mentre la legge 199 dell’ottobre del 2016 ha ribadito l’impostazione tesa alla repressione di intermediari e imprenditori protagonisti di condotte di sfruttamento, individuate secondo specifici indici.

ALTRI CONTRIBUTI evidenziano, però, che queste leggi non bastano, sia perché il contrasto giudiziario al caporalato «è stato sempre particolarmente difficile e con pochi risultati positivi», sia perché è necessario ribaltare il funzionamento delle filiere agricole per contrastare lo sfruttamento. È, infatti, il lavoro vivo, il lavoro delle persone che ogni mattina si alzano alle quattro, alle cinque, per andare a faticare duramente negli allevamenti, sotto le serre, in pieno campo, in molti casi in assenza di servizi basilari e, in alcune aree agricole soprattutto del Sud Italia, addirittura della casa, a pagare il prezzo dell’arricchimento degli altri attori delle filiere, specialmente della Grande Distribuzione Organizzata. E questo lavoro si svolge, normalmente, sistematicamente, strutturalmente, nel mancato rispetto dei contratti, con paghe inferiori almeno del 30% a quelle fissate negli accordi nazionali e provinciali, con pause ridotte, con straordinari sottopagati, come diversi articoli qui pubblicati mettono in evidenza.
Di fronte alle difficoltà per le leggi in vigore di aggredire i rapporti di potere che riproducono le condizioni di sfruttamento, evidenti soprattutto se intese nella concezione marxiana di estrazione di plusvalore e non solo nel senso del (seppure fondamentale) mancato rispetto di leggi e contratti, il testo presenta anche delle proposte per ulteriori riforme legislative.

SI INDICA, in sintesi, l’esigenza di assumere una prospettiva più ampia, con l’obiettivo di combinare la repressione con la prevenzione, ponendo al centro la necessità di sostenere i lavoratori che denunciano, da garantire nel passaggio a un’altra occupazione e, se immigrati, da proteggere con misure simili a quelle dell’articolo 18 per l’uscita dalla tratta.
Queste proposte vanno nella giusta direzione, quella di riconoscere la centralità del lavoro vivo nei processi produttivi ma anche i rapporti di potere e le relazioni di paura in cui lavoratrici e lavoratori si trovano implicati in tante enclave agricole italiane. Il problema che il libro non affronta è capire perché il legislatore non abbia assunto questo tipo di proposte normative.

È PROBABILE che non l’abbia fatto per non alterare i rapporti di forza vigenti nell’insieme delle filiere produttive, in quanto non interessato a sostenere le lotte e i processi di organizzazione in cui, in diverse aree, e con differenti forme, i e le braccianti, soprattutto immigrati, si sono impegnati negli ultimi anni. Perché se è vero che il diritto può avere una funzione emancipativa, è anche vero che sono i rapporti di forza a rendere concreta tale funzione, a vivificarla nei luoghi e rapporti di lavoro. È nei riguardi di questi rapporti, e delle lotte e resistenze che cercano di cambiarli, che le forze politiche dovranno decidere già nel prossimo Parlamento da che parte staranno.

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