Vivarini Lo splendore della pittura tra Gotico e Rinascimento (a Conegliano fino al 17 luglio) è il primo ambizioso tentativo di ricostruire attraverso un percorso espositivo la vicenda dei pittori veneziani, di Murano («l’isola del vetro per antonomasia», come da catalogo), attivi tra gli anni quaranta del Quattrocento e il primissimo Cinquecento. Perché la mostra si faccia a Conegliano – già sede nel 2010 di quella sul beniamino locale della pittura rinascimentale, Cima, di cui rimane sulle scale la moquette verde-lega dell’indimenticabile allestimento, o della strampalata esposizione Un Cinquecento inquieto. Da Cima da Conegliano al rogo di Riccardo Perucolo, due anni fa – e non a Venezia non si capisce. L’unico presunto legame dei Vivarini con il luogo è dato da un’Assunzione della Vergine di Alvise Vivarini nella chiesa dei Santi Felice e Fortunato a Noale, non distante da Conegliano, ma l’opera non è in mostra e non è riprodotta in catalogo. L’esposizione è piuttosto costellata da dipinti provenienti dalla Croazia e dalla Puglia: Parenzo, Rutigliano, Arbe, Modugno, Barletta; ma anche dalla bergamasca, come Scanzo e Torre Boldone. Quindi in quest’ottica non suona strano leggere a proposito di due tavolette che sono state «rinvenute fortuitamente in un deposito del Liceo “Cagnazzi” di Altamura». Nulla di male contro i rinvenimenti casuali spesso forieri di importanti acquisizioni (non è questo il caso), o sulle provenienze periferiche e lontane, ma l’insieme così raffazzonato non rende fede al percorso dei pittori, che tenevano bottega a Murano, appunto, e secondo un principio molto in voga di qualità e industria rifilavano alle città mediterranee in rapporti commerciali con la Serenissima i prodotti meno sorvegliati. Scegliendo quasi tutti pezzi di serie B, per non dire C2 o D, non si rende nemmeno fede alla complessità della saga familiare, o di quella che si vuole presentare come tale.
La mostra è divisa in capitoli con i titoli dei singoli protagonisti, un po’ come Rocco e i suoi fratelli (si parva licet…): i due fratelli Antonio e Bartolomeo, e il figlio del primo Alvise. Si inizia da Antonio con il polittico oggi nel museo della Basilica Eufrasiana di Parenzo: qui la convocazione di un’opera periferica scaccia il rischio di guardare la storia dal buco della serratura essendo il primo numero noto del pittore, anche se non è una meraviglia, per via del restauro e soprattutto se confrontato con gli altri pezzi della prima stanza, la Madonna con il Bambino di Venezia e il Cristo di Bologna, che fanno subito capire il concetto di centro e periferia. Dalla stanza successiva si pone il problema della collaborazione di Antonio con il cognato Giovanni d’Alemagna («de Ulma, todescho, teotonico, Alamanus ecc.», come si sdottora in catalogo), che se davvero come sembra è l’autore della serie di tavolette divise tra la Carrara (presenti in mostra) – Washington (non presente) – Bassano del Grappa (almeno questa si poteva prendere) è un artista dalla cultura antiquaria non trascurabile e aggiornato sulle soluzioni stilistiche e compositive del capostipite della bottega che, in una logica di egemonia su Venezia, gli viene contrapposta: Jacopo Bellini, padre di Gentile e Giovanni. La collaborazione tra Antonio e Giovanni d’Alemagna è limitata, in mostra, allo scomparto centrale di un polittico oggi a Padova (i laterali stanno a Londra, troppo lontani): un capolavoro di «raffinatezza» (è l’aggettivo più abusato nelle schede di catalogo). «Raffinatezza» che si doveva cogliere, prima che le bombe della Seconda guerra mondiale la distruggessero, anche nella loro più celebre comune impresa: la volta della cappella Ovetari agli Eremitani di Padova, sopra gli esordi del giovane e irruento Mantegna.
La storia che si racconta poi è quella della collaborazione tra Antonio e il fratello Bartolomeo, di una decina d’anni più giovane probabilmente, ma non attraverso le opere più note e sicure, come il polittico, che inaugura il loro sodalizio, per la Certosa di Bologna (ora alla pinacoteca della città) datato 1450, o con quello conclusivo di Osimo (tutta l’attività per le Marche è ignorata), del 1464, ma tramite lo scassatissimo polittico di Arbe (la foto in catalogo è prima di un discutibile restauro) o con la Madonna con il Bambino di Bari, dove per decenza non sono stati convocati i laterali superstiti. La decenza non è mancata invece nel mostrare la parabola conclusiva di Antonio, o di chi per esso, con il polittico di Rutigliano. L’unica testimonianza di una commissione importante ai due fratelli sono due laterali dello smembrato polittico di Padova, ma i pezzi presentati sono pesantemente compromessi nella conservazione.
Bartolomeo autonomo dal fratello esce prepotentemente con la pala «quadrata» di Capodimonte, datata 1465, già considerata un «capolavoro» nel 1962 da Rodolfo Pallucchini, autore dell’unica monografia sui Vivarini. Non è invece un «capolavoro assoluto», «di eccezionale qualità pittorica» – nonostante quanto affermato in catalogo – l’Annunciazione di Modugno; mentre vale la pena di interrogarsi se negli scomparti del polittico per la Basilica veneziana dei Santi Giovanni e Paolo, di ben altra qualità, non cominci ad affacciarsi Alvise, almeno nel San Lorenzo. A parte la presenza, documentata da un bel saggio in catalogo, dei dipinti periferici di Bartolomeo per le valli bergamasche (sono presenti i due della Carrara), è la volta di Alvise, che, peraltro, ha pure lui un’esperienza bergamasca – addirittura forse precedente quella di Bartolomeo – almeno con l’Assunta ora a Brera, proveniente da Martinengo, che era sormontata dall’Imago pietatis del museo Bernareggi di Bergamo (tutti e due non presenti però in mostra). Ci sono invece i due pezzi da cavalletto della Carrara dove spicca la tavoletta già Lochis, con i suoi Santi neghittosi e disarticolati: seguono di poco l’arco trionfale del doge Tron (1471-1473 circa), da Venezia, percorso da un recupero squarcionesco quasi fuori tempo massimo, con tanto di capitali romane (ma che bel tema quello della scrittura in queste opere a partire dalla gotica un po’ estrosa di Antonio: ovviamente neanche minimamente toccato in catalogo). Quasi tutti i Cristi di Alvise in mostra potevano restare dove stavano: quello in origine straordinario dei Santi Giovanni e Paolo di Venezia è quasi perduto, mentre sugli altri due è meglio tacere. Non ci si è interrogati, tra le altre cose, sulla tangenza tra Alvise e il milanese Andrea Solario, precocemente presente in Laguna, una questione che pone la Madonna con il Bambino di San Giovanni in Bragora. Per quanto rovinato il Cristo risorto della stessa sede (dove Longhi vedeva nei soldati sulla sinistra il giovane Tiziano), prelude già al quadro di Amiens, datato 1500, dalle forme monumentali in dialogo con un paesaggio che la distanza non neutralizza, ma amplifica in tutta la sua urgenza sentimentale e romantica: ça valait le voyage! Si capisce perché Berenson faceva nascere Lotto da Alvise. I Santi sembrano inserirsi, per piani obliqui dai lati. Non si può non pensare guardando il San Gerolamo in bianco (dove purtroppo affiora l’underdrawing) a quello di Giovanni Bellini che troneggerà, nel 1513, sulla pala di San Giovanni Crisostomo a Venezia. Nel dipinto di Amiens si è visto lo zampino di Marco Basaiti che completa la monumentale pala dei Frari, lasciata interrotta da Alvise alla morte, avvenuta tra il 1504 e il 1505. Ma non sarà che – tra Tiziano e Basaiti – facciamo ancora fatica ad ammettere la grandezza di Alvise? A Conegliano non è affrontato affatto il problema di Alvise ritrattista di cui in catalogo è schedato il ritratto di Padova, non presente in mostra, almeno ora (insieme al Cristo benedicente di Brera, richiamato per il nuovo – e finalmente riuscito – riallestimento delle prime sale della Pinacoteca milanese). Manca dalla bibliografia (il catalogo è Marsilio con le immagini di confronto ridotte fin troppo all’osso) la fondamentale scheda di Luciano Bellosi sull’Allegoria pagana esposta alla mostra di Mantegna al Louvre del 2008-2009 (ma, si sa, la mostra era su Mantegna e non si va a vedere il catalogo, così la breve e folgorante ricostruzione della fase giovanile di Alvise rischia di uscire dagli studi e forse non c’è nemmeno mai entrata).
Un’occasione sprecata, ma non inutile questa di Conegliano. I dipinti si vedono bene, all’altezza giusta, con un’illuminazione dignitosa, nonostante un’aria condizionata da pleurite. Ci si può avvicinare alle opere e studiarle con tranquillità senza allarmi che suonano all’impazzata o isterismi dei custodi. Si resta comunque in attesa della grande mostra sui Vivarini