Scalpitava da giorni, Ahmed Maetig, il più influente tra i cinque vice premier del governo di Tripoli e alla fine, domenica, con altri due meno illustri colleghi-vice ha dato il benservito al suo capo, Fayez Serraj

. I tre – lui più Fathi Majbari e Abdel Salam Kajman – hanno pubblicato una lettera di fuoco all’indirizzo di Serraj: lo accusano al tempo stesso di essere un accentratore di decisioni e di non fare abbastanza su tutte le principali questioni – «terrorismo, immigrazione illegale, crisi economica» – conducendo così la Libia «verso l’ignoto», «al punto di partenza», alla guerra.

Serraj ieri ha risposto accusando i tre ribelli di voler «mantenere lo status quo» e, per rassicurare la comunità internazionale che finora non gli ha mai fatto mancare l’appoggio, ha aggiunto di non credere che «gli attuali conflitti politici possano diventare violenti».

Ma non sono esclusi voltafaccia clamorosi nelle prossime ore, nelle quali tra l’altro è programmata la visita del premier italiano Giuseppe Conte in Niger e Ciad, ovvero nell’area a sud della frontiera libica, zona finora monitorata dalla forza del G5 Sahel a guida francese ma che l’Italia da tempo vuole affiancare con almeno 400 soldati nel controllo delle sabbiose e friabili frontiere sulla rotta dei trafficanti di esseri umani e dei mercenari chadiani e sudanesi.

Proprio nel sud della Libia, a Sebha, capoluogo del Fezzan, solo pochi giorni fa si è recato per la prima volta l’inviato speciale delle Nazioni Unite Ghassam Salamé, per poi spostarsi a Bengasi. Salamé non ha risparmiato a Serraj larvate critiche di inconcludenza. Gli ha chiesto di accelerare sia sul ripristino di condizioni di sicurezza nella capitale, sia sulle riforme economiche, per poter arrivare a primavera con un quadro che consenta lo svolgimento di elezioni generali, del referendum di conferma della Costituzione e infine delle presidenziali.

Dopo la conferenza di Palermo del 12 e 13 novembre Salamé aveva anche programmato una conferenza di pacificazione in Libia entro gennaio, della quale però si sono perse le tracce.

L’iniziativa dei tre vice ribelli complica il quadro. Maetig è un esponente di spicco della città-Stato di Misurata, asse militare del governo di Tripoli. Le milizie misuratine sono quelle che hanno massacrato il colonnello Gheddafi a Sirte e poi sconfitto l’Isis nella stessa città.

Ora Maetig, 46 anni, rampollo di una famiglia in vista, ex imprenditore del ramo alberghiero e costruzioni, ambisce a una posizione di primo piano. Si dice sia stato lui a portare a Palermo il generale cirenaico Khalifa Belqasim Haftar e continua a intrattenere relazioni strette con il Parlamento di Tobruk (Hor) a cui Haftar fa capo. Non pare abbia gradito che nell’ultimo rimpasto, dopo Palermo, Serraj abbia nominato un altro misuratino nuovo ministro dell’Interno: Fathi Beshaga, che ha appena riselezionato le tre milizie accreditate alla sicurezza nella capitale escludendo le più vicine ad Haftar. Forse Maetig vagheggia addirittura di sostituire Serraj.

A Misurata, feudo della Fratellanza musulmana, la scorsa settimana è arrivato un carico di armi camuffate da pistole-giocattolo dalla Turchia. La cosa ha mandato su tutte le furie Haftar, acerrimo nemico della Fratellanza, che ha gridato alla violazione dell’embargo Onu.

E il Qatar, alleato della Turchia, ieri ha messo sul piatto 20 milioni di dollari per «contribuire alle spese per il rimpatrio di migranti illegali detenuti in Libia». Le sorti della Libia non sono ancora nelle mani dei libici, ma neanche in quelle dell’Italia, men che meno di Maetig.