Frutto di una sofferta introspezione e di una ricerca di perfettibilità mai appagata, il poema Il demone Racconto orientale, occupò Lermontov dall’età di quattordici anni per più di un decennio, passando, almeno, per le otto redazioni che ne conosciamo. Le vicende della sua stessa pubblicazione testimoniano di un destino letterario del tutto specifico. Pur avendo ricevuto il permesso di fare uscire il suo poema, Lermontov a lungo non si decise a farlo e anche dopo la sua tragica morte in duello, nel 1841, l’opera rimase a lungo inedita in Russia, a parte il frammento apparso su rivista nel 1842 grazie a Vissarion Belinskij; venne invece pubblicata all’estero, in Germania, a Karlsruhe, nel 1856.

In Russia Il demone apparve nel 1860, dopo la morte di Nicola I, l’imperatore che alla notizia della scomparsa di Lermontov, stando a quanto disse P.P. Vjazemskij, esclamò: «A un cane una morte da cani». Di lì a poco il poema, pur nella sua incompletezza e frammentarietà, si affermò come uno dei più rilevanti testi dell’intera letteratura russa, esercitando una forte influenza sulla produzione di fine secolo e trovando importanti intersezioni in ambito musicale (basti pensare al Demone di Anton Rubinštein) e figurativo, con la celebre serie di demoni creata da Michail Vrubel’.

Il poema, che riecheggia una plurisecolare tradizione di opere dedicate allo «spirito della negazione» – dal Paradise Lost di Milton al Faust di Goethe, da Byron fino a Eloah, ovvero la Sorella degli Angeli di Alfred de Vigny – racconta del demone caduto, del suo amore per la bella principessa georgiana Tamara, del suo irrealizzabile sogno di amare, della sua aspirazione al bene e all’armonia perdute, fino alla inevitabile catastrofe. Satura di riferimenti filosofico-religiosi, Il Demone è ambientata esoticamente nel Caucaso, luogo d’esilio e d’elezione creativa per il poeta (dal Novizio a Un eroe del nostro tempo), ed è segnata da una raffinata ricerca dell’individuazione psicologica e spirituale dell’eroe. Anche in Italia ha avuto una sua significativa fortuna, come testimoniano le numerose traduzioni realizzate già negli ultimi decenni del XIX secolo (da Giovannelli, 1883, a Domenico Ciampoli), e in tempi più recenti quelle di Giovanni Bach e Giovanni Gandolfi, fino alla classica versione di Tommaso Landolfi, e ancora quella puntuale e rigorosa di Eridano Bazzarelli. Ora esce per Gse edizioni (pp. 104, euro  10,00) una nuova versione, o meglio «interpretazione» di Paolo Statuti, preceduta da una prefazione di Antonio Sagredo, certamente meditata, ma un po’ datata nei riferimenti bibliografici.

Il traduttore, da anni residente in Polonia e già molto noto per le sue versioni di poesia russa ( in particolare per due recenti libri di liriche scelte di Boris Pasternak e Osip Mandel’štam) ha incluso in apertura anche la lirica Il mio demone, lavorando di cesello e di ricerca verbale in modo profondamente meritorio. La tetrapodia giambica dell’originale lermontoviano è resa con versi sillabici, per i quali il traduttore si sforza di mantenere, nei limiti del possibile, i tratti rimici e compositivi dell’originale, non indulgendo mai alla soluzione più facile (ad esempio quella della rima grammaticale), ma cercando strade più complesse. Questo, ovviamente, spinge a una frequente rilettura libera di alcuni dettagli, ma nel complesso permette al traduttore di ricostruire molti degli specifici toni e atmosfere del grande poema, cimentandosi – in particolare – nel difficile compito di riprodurre in prospettiva funzionale i tratti ritmico-melodici dell’originale.
In questa prospettiva, sarebbe stato tuttavia fruttuoso accompagnare la versione italiana con una serie di rimandi in nota che aiutassero a ricostruire i molteplici aspetti letterari e culturali del testo, un po’ alla maniera delle preziose edizioni di poesia mandel’štamiane proposte da Remo Faccani nella «bianca» di Einaudi.