Nell’ultima plaquette di Ferruccio Brugnaro (Le follie non sono più follie, Edizioni Seam, pp. 68, euro 10), il lettore dell’operaio del Petrolchimico di Porto Marghera, classe 1936, già avanguardia di fabbrica, incontra la limpida coerenza di una lunga stagione poetica: sono del 1965 i suoi primi ciclostilati (medium d’altri tempi) distribuiti nei quartieri, nelle scuole, tra i lavoratori in lotta. Ho già avuto modo di soffermarmi – proprio su queste pagine – sul contrasto fondamentale nella poesia di Brugnaro tra l’ostentata ordinarietà del lessico, la linearità dei robusti nessi sintattici e invece il furore delle figure della ripetizione, dei versi brevi sgranati a precipizio nel bianco della pagina. I titoli medesimi condensano un verso, come un proclama. Tale fiducia nella parola nasce dalla condivisione con il lettore e dalla certezza delle proprie ragioni. Da questa particolarissima couche,scaturisce l’originalità della ricerca di Brugnaro. Nel presente inabissarsi della stagione novecentesca, quando la lotta di classe è del capitale mentre i subalterni appaiono risospinti a plebe, l’autore ci mostra ancora che un altro mondo è necessario.
Ma Brugnaro è poeta autentico, la sua risentita interrogazione del presente non lo tradisce. Così nella raccolta appena uscita si confronta con il deperire della coralità, battuta, umiliata dalle sconfitte: I miei compagni sulle torri, titola significativamente il secondo componimento, omaggio all’angoscia di una classe operaia costretta, per impotenza e afasia, a esibire nell’autolesionismo la violenza subita, che non può altrimenti essere agita: «schiacciati da disumane attese/ infiniti disprezzi/ umiliazioni/ disperazioni». Il «principio speranza», insopprimibile in Brugnaro, prende ora due forme: l’invettiva contro la classe dominante e la scommessa sulla forza primigenia della vita.
Nella prima si dispiega l’irruenza consapevole che nessuna sconfitta storica può annientare le antiche ragioni della propria parte: «la terra non ne può più/ di queste iene» (Menzogne insopportabili); «il mio grido è un acido/ forte, deciso» (Non si può spegnere); «tenete lontane le vostre sozze mani/ le infinite menzogne/ dalle sorgenti/ dai fiumi» (Rifiuto delle privatizzazioni). L’indignazione fa avvicinare Brugnaro alle icasticità di certe avanguardie primo novecentesche: «Bravo presidente/ bravi ministri/ bravi segretari/ sottosegretari/ partiti/ sindacati/ bravi bravi/ tutti quanti./ Mano nella mano/ cantate/ gli operai sono/ tramortiti di botte/ gli operai lavorano/ e tacciono/ abbiamo trovato/ gli alleati giusti./ Evviva evviva» (Bravi e bravi).
Nella seconda linea di sviluppo, il poeta si sofferma sugli aspetti più privati: le nascite, il padre, la donna. Tuttavia anche tale mossa non dimentica la sconfitta storica, da cui nasce, magari per semplice scatto di reni: «Le guerre/ non prevarranno/ non avranno/ l’ultima parola./ È nata Piera Maria» (Non prevarranno). Nei casi meno disperati le ragioni della vita sono spinta al futuro già nella loro radice, come nel commovente omaggio al padre: «il suo canto, più che un canto/ il suo era ed è/ un grido, un urlo selvaggio/ denso/ che io rilancio con tutta/ la forza delle ferite/ di un amore a brandelli/ contro queste ore/ di padroni affamati di sangue/ di retate/ contro le sbarre pesanti dell’emarginazione/ contro le foreste di un dolore/ e una solitudine senza fine» (Bracciante, raccoglitore di stracci). Di fronte all’avvelenamento della fabbrica che colpisce la vita oltre l’umano, s’accende una dialettica che ricorda le asprezze della Veglia ungarettiana: «L’aria oggi puzza di uova marce/ è infetta/ di tetraetile idrocarburi/ catrami./ Ho raccolto ora un minuscolo uccello/ rosso grigio/ tutto tremante/ ha gli occhi chiusi/ e il becco pieno/ di schiuma verdastra. (…)Mi è stata gettata nel profondo/ oggi/ una domanda d’amore/ di luce/ che non può essere/ nascosta da nessuna/ parte» (L’ho sentito implorare con durezza).