Quando noi italiani migravamo in massa in Libia attraversavamo il Mediterraneo a bordo di cacciatorpediniere e corazzate. I nostri scafisti si fregiavano del titolo di ammiraglio, capitano di vascello ecc. A partire dal 1911 i nostri migranti, messo piede a terra, si trasformavano in combattenti che non disdegnavano fucilazioni in massa, bombardamenti, rastrellamenti, deportazioni. Diventate regolarmente spietate con l’avvento del fascismo. I flussi migratori, chiamiamoli così, avevano il compito di costruire l’impero. Il che voleva dire annientamento di ogni resistenza, sottomissione delle popolazioni anche attraverso il bombardamento con i gas e i campi di concentramento.
«Il mio solo tormento / l’impotenza / il castigo / di subire la vita / e di non viverla / gli uomini migliori della tribù / sono oggi considerati come / miserabili degenerati. Il mio solo tormento / i cuori spezzati / queste lacrime che sgorgano / dai nostri uomini imprigionati / dalle famiglie dimenticate / abbandonate / alla loro sorte».

Un canto in trenta strofe brevi che Rajab Abuhweish (in francese traslitterato come Rajab Bou Houaiche) recita mentre è detenuto nel campo di concentramento di El Agheila sul golfo della Sirte, al confine tra Tripolitania e Cirenaica. Vi è arrivato dopo essere stato deportato con una marcia della morte di più di 400 chilometri attraverso il deserto. Lui e tutto il suo clan. Era membro della tariqa-confraternita dei Senussi che aveva già dato filo da torcere sia ai francesi sia, e ancora di più, agli italiani. Apparteneva al clan al-Manifi, il medesimo di Omar el Mukhtar, il «leone del deserto», impiccato dagli italiani nel 1931 dopo un processo farsa.

Le testimonianze raccolte da Eric Salerno (Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale italiana, 1911-1931, Manifestolibri, Roma, 2006) non lasciano spazio alla benevolenza: «Ogni giorno uscivano da el Agheila cinquanta cadaveri. Venivano sepolti in fosse comuni. Cinquanta cadaveri al giorno, tutti i giorni. Li contavamo sempre. Gente che veniva uccisa. Gente impiccata o fucilata. O persone che morivano di fame o di malattia. Di solito quelli che cercavano di scappare, giovane, vecchio o bambino che fosse, venivano presi e messi al centro del campo. Gli veniva buttata della benzina addosso e tutti dovevano essere presenti a guardare».

Un avventuroso giovane danese, Knud Holmboe, si prefigge di attraversare in auto il Nord Africa da ovest ad est. E ci riesce, nel 1930. Conosce bene l’arabo e i suoi dialetti, è diventato musulmano. Ama gli arabi, ma non esita a denunciarne le ingiustizie così come riconosce la straordinaria umanità di alcuni ufficiali italiani che incontra. Ma: «Il paese è un bagno di sangue… Nel periodo che trascorsi in Cirenaica avevano luogo trenta esecuzioni al giorno e questo significa che ogni anno vengono giustiziati 12.000 arabi… I pozzi vengono cementificati per impedire di abbeverare gli animali».

Il suo libro, Incontro nel deserto, è stato sempre proibito in Italia. Era stato pubblicato nel 1931, che è anche l’anno della sua misteriosa uccisione nel golfo di Aqaba. Verrà tradotto in italiano nel 2005 da E. Kampmann per l’editore Longanesi.
Ma bi marad’ – Il mio solo tormento è ripetuto 26 volte nel poema secondo una recitazione ritmica rigorosa. Oggi sarebbe un rap. «Il mio solo tormento / perdere la mia dignità/ in una età avanzata e / dovermi separare / dai nostri uomini migliori / nostro bene più prezioso».

È in prima persona, ma esprime il dolore di un popolo, è una elegia, rith, che lamenta l’esilio e trova nella lingua il suo rifugio. Nel frastuono del campo, tra le migliaia di voci, il canto del poema è anche una testimonianza, una fonte di storia che scavalca il filo spinato che recinta le tende.

Ne è appena uscita una versione in francese, con testo arabo a fronte, a cura di Kamal Ben Hameda, Le livre du camp d’Aguila (elyzad, Tunisi). Una ricercatrice dell’Università di Copenhagen ne ha fatto, verso per verso, una approfondita analisi e traduzione in inglese (Safia Aoude, A Literary Analysis of Rajab Abuhweish’s Lybian Poem ’My only Illness’ in the Light of Its Time, scaricabile in rete http://www.academia.edu/7415654/A_literary_analysis_of_Rajab_Abuhweish_s_Libyan_poem_My_Only_Illness_in_the_light_of_its_time) e uno studioso di origini libiche, ora docente all’università statunitense del New England, Ali Abdullatif Ahmida, ne dà un’altra versione inglese nel suo importante libro Forgotten Voices: Power and Agency in Colonial and Postcolonial Libya (Routledge press, 2005).
Il suono di questa poesia non è mai giunto alle nostre orecchie italiane.