Tra le cose che facciamo, raccontiamo storie. Continuamente, dalla chiacchiera da bar alle strategie delle campagne elettorali, dai libri ai cinema, dalla pubblicità all’ultimo reality: raccontiamo storie, elaboriamo immaginari. Storie e immaginari possono citarsi e decostruirsi a vicenda, possono lottare tra di loro, possono emancipare i lettori o contribuire a rinsaldare le cornici del pensiero dominante. Su queste faccende si interroga, con i ferri del mestiere della narratologia, della semiotica del testo e delle discipline strutturaliste Yves Citton, autore di Mitocrazia. Storytelling e immaginario di sinistra (Alegre, euro 20, pp. 271, traduzione di Giulia Boggio Marzet Tremoloso).

Come si guadagna l’attenzione del lettore? Come si sollecitano le sue reazioni emotive e cognitive, come si agganciano le riflessioni e i ragionamenti con la forza del riso e delle lacrime, della fierezza e dell’umiliazione? Esiste un modo enunciazionale tipico di una narrazione di sinistra, che sia emancipatoria e non elitaria? Che alimenti un immaginario popolare? Come possono alcune storie farci diventare quel che «dovremmo essere»? Per rispondere a queste domande Citton elabora una complessa teoria del sapere e del potere che arriva fino al campo testuale e alle sue implicazioni pragmatiche e perlocutive. Pagato il suo debito con Tarde, Deleuze, Guattari e Lazzarato, la riflessione dell’autore è ancora più intrigante quando si inoltra in quella zona magnetica in cui il potere circola tra gli attori sociali in «flussi di desideri e di convinzioni». In questo campo (magnetico, ma anche semiotico) si formano strategie testuali che catalizzano emozioni e influenzano opinioni. Queste strategie altro non sono che le storie raccontate e la nostra realtà, da questo punto di vista, è «un’immensa accumulazione di racconti».

Il problema è che gran parte di questi racconti, avverte Citton, sono storie che alimentano un immaginario di destra. Mentre la sinistra rispetta il dogma di certo postmodernismo e si rifiuta di «raccontare storie», la destra utilizza le cosiddette «narrazioni tossiche»: la storia degli «immigrati criminali e stupratori», dei rom «ladri di bambini», la storia dei «finti invalidi che truffano l’Inps» o la storia «dei vecchi operai tutelati che in fabbrica andavano solo a timbrare il cartellino». Questo l’adattamento al frame italiano degli esempi di Citton, ma il plot è lo stesso: queste storie sono impiegate per smantellare il welfare, servono come distrattori sociali per disciplinare i lavoratori migranti o evitare la solidarietà tra generazioni di sfruttati contro un nemico comune padronale. Di fronte a queste storie, la sinistra non riesce a elaborare un immaginario alternativo e insegue una strategia narrativa di destra.

Ovviamente ci sono storie che confermano il sistema dominante dei valori e altre che lo ribaltano. Ma quel che conta, ci sono storie che muovono dal basso, che sono egalitarie ed emancipatorie e altre che discendono dall’alto, che irreggimentano e propagano i canoni del senso comune. Le storie «liberatrici» portano a galla quelli che l’antropologo statunitense James C. Scott chiama i «verbali segreti», quei discorsi che i subalterni fanno dietro le quinte. Sono discorsi alternativi al discorso ufficiale, al public transcrit egemonico. La forza delle storie dal basso è dunque quella di portare alla ribalta i verbali segreti, i discorsi dei subalterni, degli sconfitti, dei dimenticati, dei colonizzati, dei proletarizzati. Il verbale segreto è composto da storie dal basso che spingono verso l’alto, in direzione opposta all’oppressione. La sfida per uno storytelling di sinistra è scovare le storie dal basso (nascoste o dimenticate nel flusso comunicativo mainstream) per spingerle avanti, perché aprano la strada a nuove rivendicazioni e a nuove emancipazioni, perché «le indignazioni, le speranze e i sogni» che di solito si esprimono lontano dal potere diventino enunciazioni dirette e trasformino la realtà.