L’appuntamento con la Val d’Orcia è di quelli quasi imperdibili dell’estate teatrale (e non solo). Ci sono motivi paesaggistici e antropologici, di gola e di gusto. Ma tra le torri antiche delle mura di Monticchiello c’è soprattutto, da parte degli abitanti (e degli spettatori che sempre di più accorrono a vederli e applaudirli) il coraggio e l’orgoglio di riflettere sul presente, senza rinnegare il proprio passato che anzi diviene elemento di lettura e comprensione dell’oggi. Succede così da più di quarant’anni, e anzi l’approssimarsi del cinquantenario del «teatro povero» diviene ora anch’esso elemento drammaturgico nello spettacolo che la comunità del paese (sotto la mano ferma e poetica di Andrea Cresti) presenta in queste settimane, Tempi veleniferi (fino al 14 agosto, info 0578755118, o sul sito teatropovero.it).

Tempi portatori e scatenanti di veleni di varia natura sono i nostri, come si sa, ma anche altri momenti del passato non sono stati leggeri. Come quel 7 aprile del 1944 in cui gli abitanti rischiarono di esser trucidati in massa dai nazisti, per aver appoggiato la resistenza partigiana. E con l’immagine di una folla scura di persone sul fondo, e un mitragliatore puntato verso di loro, si apre lo spettacolo. È un flash, di cui si sentono sommessamente le preghiere e i dubbi; e con i lampi di cui è il teatro è capace, si viene sbalzati ai dubbi di oggi, in cui un nuovo assedio, impalpabile eppure tremendo, stringe alla gola uomini e donne. Senza nostalgia o svenevolezza, un altro balzo temporale ci porta a mezzo secolo fa (ecco il «cinquantenario») in cui la società contadina del dopoguerra, dopo le conquiste di mezzadria e sopravvivenza, vive i problemi della dura divisione del lavoro in seno alla famiglia, le figlie femmine da maritare possibilmente con una minima dote, i rapporti tra ragazze e ragazzi, e le loro possibilità d’incontro.

Un’incertezza non solo esistenziale, ma sociale e collettiva, cui si poteva opporre però una solida storia alle proprie spalle, una tradizione provvida di suggerimenti, un buon senso temprato ogni giorno dalle regole della natura e della terra. Senza nostalgia si è detto, ma con un sano e consapevole realismo, che li rende capaci di cambiare in corsa ciò che minaccia di essere ineluttabile (come il matrimonio infelice di una delle figlie del contadino, la quale riesce a fare la scelta giusta contro la combinazione sbagliata che si addensa sul suo futuro).

E’ il momento questo, più denso e godibile della serata, che cita le tradizioni primigenie del teatro povero, e riesce a intenerire e far sorridere anche nel pieno del dramma (anzi dell’autodramma, come disse Strehler quando passò da Monticchiello nel 1969, in fuga temporanea dal Piccolo). A differenza del passato recente, la citazione della cultura contadina qui si espande e prende respiro, rivelandosi un bene prezioso del paese e di tutta la cultura toscana. Che pure guardando alla memoria resta lucidissima sul presente, come dimostra la scena finale, in cui riprendono corpo (e minacce) i pericoli di oggi. Così la strepitosa e commovente prova degli attori, la bella regia di Cresti e la poesia del racconto, si bloccano in gola, mentre si riconoscono nelle figure emerse dal buio i programmi che furono della P2 di Gelli, che sembrano ancora ben vivi e agguerriti. E «veleniferi» oggi come ieri.