Quando nel 1953 i coniugi Miller (Irwin e Xenia) chiesero ad Alexander Girard di disegnare gli interni della loro casa progettata da Eero Saarinen a Columbus non avrebbero mai immaginato che sarebbe nato uno straordinario sodalizio con Charles e Ray Eames, chiamati dallo stesso Girard a risolvere gli arredi dell’esterno. La Herman Miller Furniture, infatti, aveva già in produzione dal 1951 un loro tavolo ellittico, ma è solo con l’ingresso di Girard alla direzione della divisione tessile che si consolida il legame dei coniugi Eames con l’azienda statunitense.

Finita la guerra, Charles, dopo avere sperimentato l’ausilio del legno curvato per risolvere le fratture agli arti dei soldati, comprese che con la plastica poteva proseguire la sua ricerca sulle forme ergonomiche. Così la Herman Miller, dopo avere messo in produzione i divani compatti (1954), proseguì con le sedie lounge impilabili, in compensato sagomato e plastica (1955). Tutto, però, nacque dal legno, che restò sempre un materiale privilegiato, come spiega una delle tre mostre nelle quali si articola la retrospettiva del Vitra Design Museum An Eames Celebration (fino al 25 febbraio), quella curata da Heng Zhi – Kazam! The furniture Experiments of Charles & Ray Eames – al Vitra Schaudepot, l’ultimo edificio disegnato per il complesso vicino Basilea da Herzog e De Meuron. Qui è possibile ammirare molti prototipi, disegni e strumenti di lavoro degli Eames, a iniziare dalla macchina da stampa «a caldo» protagonista dei loro sostegni sanitari: la Kazam! Machine.

È con questa macchina che gli Eames, nel loro ufficio di Los Angeles, trasformarono nel 1941 sottili strati di compensato (plywood) in un guscio tridimensionale in grado di sostenere il peso e conferire alla sedia forme plastiche insolite, come già, del resto, aveva intuito Aalto. I «gusci» poco alla volta migliorarono e dal compensato si passò all’alluminio, fino alla fibra di vetro, in un progressivo affinamento formale e tecnologico prima dell’arrivo alla produzione seriale.

Per comprendere non solo il meticoloso e complicato lavoro che sta dietro il design degli Eames, ma anche e soprattutto la sua rapida evoluzione, occorre riandare alla prima prova di Charles, all’epoca, insieme a Eero Saarinen, insegnante alla Cranbrook Academy of Art (Michigan), diretta dal padre di Eero, Eliel. È sufficiente confrontare la fotografia del Living room premiato alla competizione Organic Design in Home Furnishings (1940) con gli elementi di arredo di dieci anni dopo, firmati ormai insieme a Ray. L’evoluzione che ebbero sedie, tavoli e contenitori, in un arco di tempo relativamente breve, non si esaurì però con la sperimentazione delle diverse soluzioni tecniche e con l’impiego di materiali eterogenei. La novità risiede nelle loro combinazioni, ovvero l’organizzazione delle parti all’interno del tutto. Ciò per Eames significava superare il funzionalismo in direzione dell’«organico». Lo stesso convincimento che ha Eliot Noyes, direttore all’epoca del dipartimento Industrial Design del MoMA, che giudicava il prodotto industriale una sintesi tra «la struttura, il materiale e lo scopo»: principio-guida per il raggiungimento «dell’eleganza razionale delle cose destinate all’uso». Anche Charles ne era convinto, precisando, in veste di architetto, di non potere «fare a meno di esaminare i problemi che ci circondano come problemi di struttura, e la struttura è l’architettura».

Non si evidenzierà mai abbastanza come la ricerca degli Eames si svolga nei modi più rigorosamente interdisciplinari: è possibile constatarlo nella retrospettiva che si tiene nell’edificio principale del parco espositivo di Weil am Rhein dal titolo Charles & Ray Eames. The Power of Design, curata da Jolanthe Kugler e Catherine Ince del Barbican Centre di Londra, la galleria che lo scorso anno ha anticipato con una mostra l’attuale omaggio svizzero al mondo degli Eames. Se è innegabile che la celebrità della coppia derivi dai loro mobili, come è chiaro nella seconda sezione del percorso, non bisogna dimenticare che per i due architettura + design è un’attività che riguarda circa quindici anni dei quaranta di vita dell’Eames’s Office. Dalla fine dei Cinquanta, infatti, il loro interesse si rivolse alle nuove forme della comunicazione che nel cinema e nelle installazioni multimediali anticipano molti dei temi di oggi. Tony Benn, deputato inglese e amico della coppia, nel 1978, anno della morte di Charles (Ray lo seguirà dieci anni), commemorandolo all’ambasciata degli Stati Uniti a Londra, mise in risalto quanto, per la sua generazione, più delle sedie era valso l’avere dimostrato le possibilità offerte dai nuovi strumenti di comunicazione e di apprendimento. Sono, quindi, le proiezioni con sette schermi di Still of Glimpses of the U.S.A alla Mostra Americana a Mosca (1959) o con ventidue di Think nel Padiglione IBM, disegnato insieme a Eero Saarinen, alla Fiera Mondiale di New York (1964), ciò che distingue il lavoro degli Eames.

Tuttavia, a ben vedere, non c’è discontinuità di metodo nella loro lunga carriera professionale, poiché, arredo o film, Charles e Ray si pongono sempre gli stessi interrogativi inerenti la natura dell’agire nelle relazioni umane.

La forza del loro design umanizzato si rifletterà così nell’audiovisivo (più di cento cortometraggi prodotti), messo al servizio di tematiche le più varie, dal futuro di un paese emergente (India Report, 1958) a quello della ricerca spaziale, ma anche nell’architettura e nel design, là dove indagano senza condizionamenti i problemi che su diverse scale pone l’habitat quotidiano nel superamento delle barriere disciplinari.

Pat Kirkham chiarisce come il tipo di modernità che gli Eames concepiscono è quella che «combina e tiene in tensione parecchi tratti in apparenza opposti». La «decorazione funzionale» viaggia su «binari sfocati» in quanto tra il giocoso e il serio lo spazio può includere l’aspetto «standardizzato e personalizzato, la semplicità e la complessità, la struttura e la decorazione, il passato e il presente, l’artigianale e la macchina, il casuale e il sofisticato».

Il manifesto di questa posizione degli Eames è la casa per sé costruita nel 1949 nell’ambito del programma Case Study Houses, esperimento promosso dalla rivista «Arts & Architecture» di John Entenza di modelli di case a basso costo disegnate da affermati architetti: oltre agli Eames, per citarne alcuni, Richard Neutra, Craig Ellwood, Raphael Soriano, Pierre Koenig. È nella casa in Pacific Palisades, una scatola ariosa e leggera immersa nel verde, che l’interior eamesiano mostra come si tengano insieme le forme della produzione artigianale (tappeti tribali, sculture primitive) con quelle della serialità industriale (il Sofa compact in tessuto a righe, la Lounge Chair in palissandro e pelle con la ottomana eletta da Time nel 1999 «sedia del secolo»). L’aura mitica che vi si respira e che mescolcultura folk e Buckminster Fuller, Isamu Noguchi e tecnologia dell’aerospazio, è ormai un dato acquisito, ma, come scrisse lo storico Reyner Banham, il significato di questo interior travalica le qualità specifiche del design nel suo porsi come la soluzione più calda e umana nell’uso domestico della prefabbricazione. In questa fusione di sperimentazione, interdisciplinarietà e coerenza si inquadra l’intera attività professionale degli Eames.

Tra i cinquecento oggetti e più che la retrospettiva presenta un posto di rilievo lo rivestono i giocattoli, presentati in un a parte (presso la Gallery del museo) dal titolo Play Parade: maschere e sagome di animali e costruzioni modulari come The Toys (1951), tasselli in legno e pannelli colorati con i quali costruire spazi e mondi di fantasia. Charles e Ray prestarono ai giocattoli la stessa attenzione rivolta agli arredi all’insegna del motto «Prendi con serietà i tuoi piaceri!». Forse qualcosa di più che un invito: il leitmotiv di una vita dedicata alla conoscenza attraverso il design.