La pioggia di fine inverno che cade su Tunisi in questi giorni, non scoraggia la gente. L’Avenue Bourguiba – la strada che unisce la «ville nouvelle» alla Medina, il cuore arabo della capitale – pullula di vita. Un signore vestito con abiti tradizionali e l’immancabile chachia rossa sulla testa, staziona sull’Avenue imbracciando con orgoglio un cartello scritto in arabo, francese e inglese: «Come sono belli la Tunisia e il suo popolo». Le terrazze dei Caffè sono affollatissime e se non fosse per qualche camionetta della polizia e per il filo spinato che circonda il Ministero degli Interni e l’Ambasciata Francese, non si direbbe che questo sia un paese ripetutamente colpito dal terrorismo.

Malgrado i recenti avvenimenti di Ben Guerdane – il villaggio alla frontiera con la Libia dove agli inizi del mese si sono affrontati esercito e militanti di Daesh – non si percepiscono tensione o paura. I tunisini resistono ancora una volta ai tentativi di avanzata islamista e attendono con fiducia l’arrivo di una nuova primavera. Anche al Museo del Bardo fervono i preparativi per le commemorazioni del 18 marzo. L’anno scorso, in questa stessa data, un ordinario giorno di visite si trasformò in strage.

Mentre un nutrito gruppo di turisti sbarcati nel porto de La Goulette dalle navi-crociera che lambiscono le coste del Mediterraneo si riversava nell’antica residenza del Bey, due giovani armati riuscivano ad introdursi clandestinamente nel museo, passando accanto a un altro palazzo emblematico, la sede dell’Assemblea Costituente.

Prima che il repentino intervento delle forze speciali anti-terrorismo riuscisse ad abbattere entrambi i criminali, ventitré persone erano già cadute sotto le raffiche dei kalachnikov cospargendo del sangue dell’innocenza un pavimento di tessere millenarie. Provenienti da undici paesi diversi dell’Africa, degli Usa, d’Asia ed Europa, le vittime facevano parte dei circa 600 mila visitatori che fino al 2015 raggiungevano Tunisi per ammirare le rovine di Cartagine ma soprattutto la più grande e splendente collezione di mosaici romani al mondo.

Delle urla impresse in una telecamera lasciata accesa nella disperata fuga di quel mercoledì nero, oggi non resta che un ovattato silenzio. Le sale in cui avvenne la carneficina sono vuote e le vetrine mostrano – oltre ai reperti – i segni dell’assalto. «Appena avremo i mezzi finanziari le sostituiremo perché se ricordare è un dovere, superare l’orrore è ugualmente necessario» dice al manifesto l’archeologa Lamia Fersi, che con altri impiegati del museo mise in salvo numerose persone nascondendole nei locali dell’amministrazione.

In questo anno, infatti, gli sforzi del direttore del museo Moncef Ben Moussa e di tutti i suoi collaboratori si sono concentrati sul miglioramento di un percorso culturale che fino al tragico evento puntava al traguardo di un milione di visitatori. Alla vigilia dell’anniversario del massacro, studenti delle scuole con i loro familiari irrompono con entusiasmo nella sala di Cartagine. In un’altra stanza, un gruppo di minorenni di un istituto penitenziario femminile seguono rapite il braccio di Nadia, guida del servizio pedagogico del museo, la quale svela i segreti dei grandi pannelli musivi appesi alle pareti. Attenti e per nulla discoli, i bambini dei cosiddetti villaggi Sos – una sorta di orfanotrofi – della regione di Sousse osservano anch’essi animali e divinità marine che spuntano dal passato come da una storia a fumetti.

È ormai sera quando Fethi Nefzi e i suoi colleghi di atelier rimuovono la pellicola di gesso al mosaico di 4 metri di superficie pazientemente realizzato in sei mesi. Sotto due mani che si stringono in segno di pace, campeggiano i nomi delle ventitré vittime. In fondo alla lista, una colomba offre un rametto d’olivo al futuro. I tunisini si sono riappropriati del loro museo. Ora tocca a tutti gli altri tornare su quest’accogliente sponda del Mediterraneo per raccoglierlo.