Scoppiata nella primavera del 1992 in seguito all’assoluzione degli agenti, bianchi, che avevano pestato e arrestato l’automobilista afroamericano Rodney King, la rivolta di Los Angeles ha rappresentato una sorta di «evento globale», uno snodo decisivo sia per cogliere la trasformazione dei fenomeni urbani, il loro raccontare nuove istanze, desideri e protagonismi sociali, sia un punto d’arrivo, e di ripartenza, per quella narrazione dei riot metropolitani che caratterizza sempre più spesso il mondo occidentale, sfidando le categorie interpretative della politica mainstream come dello stesso pensiero critico. In questo senso, il fuoco che per una settimana incendiò le strade della metropoli californiana non si è più estinto.
A 25 anni dai fatti, non potrebbe essere perciò più puntuale la scelta della manifestolibri di ripubblicare, con la cura di Federico Tomasello, che firma anche una nuova introduzione al testo, No justice no peace. La rivolta di Los Angeles (pp. 142, euro 16), il volume collettivo che all’epoca cercò di analizzare i contorni di quanto accaduto e i cui contributi non solo resistono alla prova del tempo, ma risultano ancora stimolanti al punto di interrogare in modo più o meno esplicito il presente.

IL CONTESTO in cui si torna a guardare oggi alla vicenda del 92 è caratterizzato oltreoceano dalla strage senza fine di giovani neri per mano delle forze dell’ordine. Uccisioni seguite da altrettante rivolte e dalla nascita di un movimento, Black lives matter che con la fenomenologia del riot ha un rapporto ampiamente dialettico. Questo, mentre anche nelle grandi città europee rivolte del tutto simili sono all’ordine del giorno: dalle banlieue francesi nel 2005, passando per la periferia di Malmo nel 2008, fino alla Londra del 2011.
Se l’innesco è spesso simile, il ripetersi di abusi e violenze da parte della polizia, il repertorio che segue è vario, anche se in via di «rapida globalizzazione». Del resto, come ha notato il sociologo Alain Bertho in Le temps des émeutes (Bayard, 2009), si tratta di «uno dei volti che definiscono l’epoca in cui viviamo e una delle chiavi di lettura, nella loro dimensione sia soggettiva che globalizzata, del presente».

Da questo punto di vista, suggerisce Tomasello, nel 1992 a Los Angeles «due temporalità sembrano essersi intrecciate: passato prossimo e futuro anteriore». Da un lato, l’irrompere di un tumulto «selvaggio» che metteva in discussione la «fine della storia» proclamata dopo l’89 come promessa di un mondo pacificato «dal potenziale espansivo delle democrazie liberali», dall’altro, il legame tra il riot di 25 anni e il nostro tempo che passa non solo per Black lives matter, ma che «riguarda l’intensificazione e la diffusione dei fenomeni di sommossa urbana nell’intero Occidente».

LE PAGINE di No justice no peace attraversano le strade di fuoco della Los Angeles del 1992 e, al tempo stesso si fanno attraversare da quegli avvenimenti e dai loro protagonisti, definendo un lessico dell’«età della rivolta» sorprendente quanto ad attualità, si tratti dell’annuncio del nesso perverso tra innovazione capitalistica e precarizzazione, e di quello tra trasformazioni urbane e nuove forme di segregazione razziale e controllo sociale, fino al ruolo esercitato dal consumo e dall’immaginario nella definizione di nuove identità che vedono nella «conquista della strada» l’orizzonte per affermare la propria cittadinanza.

IL TUTTO, all’ombra dell’annuncio del declino dei conflitti sociali tradizionali e dell’interrogarsi, come accadde in quella stagione sulle pagine del Manifesto con interventi ora riproposti nel volume, sul senso ultimo di quelle violenze e sulla traducibilità o meno del linguaggio delle rivolte nel vocabolario della sinistra, anche radicale.
Perciò, scrive ancora il curatore del volume, riprendere il filo della riflessione che dai fatti di Los Angeles è scaturita, «significa interrogare uno snodo che meglio di altri ha saputo rappresentare e restituire la configurazione e lo sviluppo di un insieme di processi e trasformazioni maggiori che danno forma al nostro presente globale, postindustriale e postcoloniale, a questa enigmatica condizione di transizione senza fine che continuiamo a chiamare “post-modernità”».