Densamente verde, l’acqua del Tamigi defluisce a pochi metri dalle fondamenta della Tate Modern. Procedono senza sosta i silenziosi ascensori lungo la spina dorsale del museo che, quando assolveva alla funzione di Power Station, era percorso da continue scariche di kilowatt e forniva energia alle brulicanti strade di Londra. Si perdono nell’ascolto le opinioni dei visitatori mentre, sulla superficie luminosa di sette colonne al led, altre parole scivolano, lasciando impresso, per qualche istante, ai margini del campo visivo, un alone blu elettrico. All’inizio, in quelle strisce di testo si riconosce una certa scansione logica di senso compiuto. Poi, il ritmo aumenta, le correnti delle frasi sfociano da entrambe le sponde dei display, i pixel si intersecano, il colore e la forma prendono il sopravvento sulla costruzione del linguaggio che, alla fine, deflagra, lasciando posare una polvere sottile nell’atmosfera ovattata della Artist Room che ospita la mostra di Jenny Holzer.
Qualcuno dei presenti se n’è accorto? Due persone si guardano negli occhi, adagiate sulle eleganti sedute di marmo di Toward The Clouds, installazione che Holzer ha riproposto in diversi contesti. Appoggiati alle panchine disposte al centro della sala, alcuni ragazzini percorrono con le dita le frasi incise nella pietra piacevolmente fresca e tratte da Building the Barricade, testo di Anna Swirszczynska.
Nata nel 1950, Holzer iniziò il suo percorso nella seconda metà degli anni settanta quando, studentessa per un programma del Withney Museum, copiava frasi estrapolate da testi accademici su fogli di carta, che poi affiggeva sui muri di New York. Da una parte, enormi cartelloni pubblicitari, slogan, payoff, tagline, dall’altra, il writing, il wild style, le crew di graffitari. Sistema e controcultura si sfidavano apertamente per il possesso degli spazi e, in questa contesa, Holzer, che insieme a Basquiat faceva parte del collettivo Colab, preferiva una via trasversale, mimetica. Scegliendo di trasferire la ricerca linguistica concettuale nel campo di attivazione spontanea del pubblico, le sue parole non dovevano per forza dire o apparire ma solo essere lì, anche per un attimo, un sottile intertesto nel continuo processo di trasformazione dei codici che accade lungo le strade. Romantic love was invented to manipulate women, Pain can be a very positive thing, periodi incisivi oppure paradossali, oracoli immediati, sulla soglia tra oralità e scrittura, verità ovvie: «Con i Truisms offrivo qualcosa in grado di funzionare per pochi secondi o in blocchi di tempo leggermente più lunghi, per le persone disposte a concentrarsi». Nel marzo del 1982, il lungimirante Public Art Fund di New York la invitò a presentare un’installazione per l’intersezione di Times Square. Protect me from what I want, Your oldest fears are the worst ones, erano le frasi che lampeggiarono per un mese sul tabellone luminoso di Messages to the Public, rapide, chirurgiche, ambigue, perfettamente ritmate nel congestionato gioco dei rapporti di forza dell’attenzione e della fruizione, nell’incrocio di Manhattan.
Da quegli anni a oggi, Holzer ha sempre scritto in maniera meccanica ma identificabile, misurando il peso delle sue parole su qualunque supporto, carta, acciaio, granito, led, web, automobili da corsa. Dopo il Leone d’Oro alla 44ma Biennale di Venezia, nel 1990, per il suo progetto per il Padiglione degli Stati Uniti, le mostre al Centre Pompidou, nel 1996, e al MoMA, nel 1997, il turning point degli anni duemila sembrava aver segnato una relativa stasi. Ma, con una grande retrospettiva appena aperta al Guggenheim di Bilbao, oltre che con l’installazione a Palazzo della Ragione di Bergamo, pare che l’onda stia tornando, causata, però, più da un riconoscimento storiografico, che dall’effettiva vitalità di una ricerca in atto.
La mostra alla Tate Modern, visitabile fino a tutto luglio nell’ambito del programma della Artist Room, conferma l’impressione, restituendo un punto di vista esaustivo della sua parabola, concentrata nelle sale al quarto livello dell’ala del Blavatnik Building. Il percorso si apre con un omaggio al suo stile, con le pareti interamente ricoperte di testo e un archivio nel quale sono esposte svariate tipologie di oggetti, dalle t-shirt alle confezioni di preservativi, sui quali Holzer ha impresso i suoi Truisms, assurti allo status di brand. Ma quel processo di appropriazione, vitale in quanto aderente a un flusso esistenziale immediatamente percepibile e condivisibile, non può che cristallizzarsi e diventare maniera, se applicato a riferimenti che eccedono la dimensione quotidiana dell’individuo. Sensibile nel forzare gli ingranaggi della routine, perde definizione e immaginazione quando si confronta con argomenti macrostorici. Così, risulta poco più che didascalico They Left Me, lavoro del 2018 in cui un’insegna elettronica illumina i racconti dei rifugiati siriani raccolti da Save the Children e Human Rights Watch. Ed è ancora la cronaca più commentata ma, in fondo, estranea, a essere proposta nella serie di stampe Redaction Paintings – realizzata a partire dal 2006 e già esposta, in Italia, al Correr di Venezia, nel 2015 – che riproduce documenti governativi relativi all’intervento americano e inglese in Medio Oriente.
Gli anni non sono stati generosi ma il passato di Holzer rimane splendido, come sinceramente vaporwave appare il suo sito adaweb.com, lanciato nel pionieristico 1995. Le va dato atto di aver insegnato ad attribuire alle parole un potere rivelatore in grado di mettere in discussione il corso delle piccole certezze. Così, fuori dalla mostra, assume una sfumatura inattesa la targa Blavatnik Building, inscritta nel cemento dell’atrio della nuova sezione del museo londinese. Leonard Blavatnik è l’uomo più ricco del Regno Unito, con un portafogli le cui diramazioni si sovrappongono tra conglomerati della chimica e delle telecomunicazioni, dalla Warner Music alla Lyondell Chemical Company. Alla Tate Modern ha donato 260 milioni di sterline, per l’ampliamento della sede storica, completato nel 2016, su progetto dello studio Herzog & de Meuron. La sinuosa torre del Blavatnik Building svetta in un dialogo controverso con l’austera verticalità dell’adiacente Power Station. Dalla balconata dell’ultimo piano, aprendo lo sguardo verso lo skyline londinese oscillante di luci, è vertiginoso immaginare come l’intera struttura si regga sulla verità espressa da quelle due parole incise nel cemento