Quella tra Lanzmann e Godard non è mai stata una semplice disputa intellettuale ma sempre anche un’accusa. La morte di Lanzmann non è certo l’occasione giusta per rivangare e cercare di risolvere il sospetto antisemitismo di Godard. Per una volta, si può tentare invece di osservare in che modo le loro rispettive posizioni, pur opponendosi fermamente, si esprimevano su un terreno comune. Qual è questo terreno?
Volendo essere schematici, la questione che anima da sempre entrambi è quella del rapporto tra l’immagine e la storia. E più in particolare tra l’immagine cinematografica da un lato e la storia del novecento dall’altro. Se questo è il terreno, Godard e Lanzmann si sono da subito trovati agli antipodi su due assi distinti e complementari: quello della politica da un lato e quello dell’estetica dall’altro.

La politica prima. È noto che Lanzmann è stato un sostenitore fanatico dello Stato di Israele. E che proprio il cinema, in maniera coerente e sistematica, è stato il mezzo con cui ha sostenuto il sionismo. Godard dal canto suo ha sempre un sostenitore della causa palestinese. Tra i grandi cineasti del novecento è stato quello che con più chiaroveggenza ha denunciato il progetto razzista e antidemocratico inscritto nell’origine stessa dello Stato che si dice sionista. Ma Godard non ha mai ridotto il proprio cinema ad un’impresa contro Israele – e in questo senso non c’è specularità tra i due.

A questa prima opposizione se ne aggiunge una seconda, di tipo teorico. E questa volta si deve partire da Godard il quale ha posto come assioma del suo lavoro che tutte le immagini vanno mostrate (comprese quelle della Shoah). Mentre Lanzmann nel lanciare l’impresa titanica di Shoah si è appoggiato sul principio inverso: le immagini (d’archivio) saranno sempre incapaci di restituire la cosa stessa, e quindi non ha senso mostrarle. L’opposizione non potrebbe essere più netta. Per Godard tutto quello che non si può dire deve essere mostrato. Per Lanzmann, tutto quello che non può essere mostrato deve essere detto. Eppure è proprio questo moralismo che, in ultima analisi, li avvicina.

In un recente  documentario di Alain Fleischer, Morceaux de conversation avec Jean-Luc Godard (2006), il critico e ex redattore dei «Cahiers du Cinéma» Jean Narboni interrogava Godard su una celebre sequenza del film Ici et Ailleurs (’74) che all’epoca aveva fatto gran scandalo: una sequenza in cui l’immagine di Golda Meir è giustapposta a quella di Hitler. Perché, chiede Narboni, averli messi insieme ? Godard invece di rispondere attacca le premesse della domanda. Giustapporre un’immagine ad un’altra, vuol dire in sé qualche cosa? E cosa? Che la prima immagine è come la seconda? O che entrambe sono simili? O che sono opposte? O che non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra?

Godard ha buon gioco a far vedere che il presunto potere del montaggio è solo un’illusione – dietro la quale lo spettatore nasconde a se stesso la propria interpretazione di associazioni che di per sé potrebbero anche essere casuali. È vero che una delle ossessioni di Godard è quella di portare fino all’estremo l’idea del cineasta demiurgo. Ma in quest’estremo egli trova soprattutto l’inverso: il cinema come testimonianza del rumore di fondo del mondo. Prendendo il cammino opposto, Lanzmann si ritrova allo stesso punto.

Se Shoah si dà come principio di raccogliere testimonianze, ma la produzione del film finisce per far propri i trucchi del demiurgo; è noto, perché lo ha detto lui stesso, che Lanzmann ha «messo in scena» molti elementi del suo film (oggetti, situazioni, scenografie…). « Shoah (da non confondere con La Shoah) – diceva Lanzmann – è una mia invenzione».
Contraddizione al tempo stesso assunta e rifiutata, come mostra un’altra polemica, più recente, con lo scrittore Yannick Haenel. Nel suo libro Jan Karski (Gallimard 2009), Haenel racconta due personaggi. Il primo è un Karski «documentario», tratto dalle dichiarazioni da questo stesso fatte a Lanzmann in Shoah.

Il secondo è un Karski « di finzione », frutto della fantasia di Haenel, che immagina l’incontro di Karski con F. D. Roosevelt alla Casa bianca. In questa nuova polemica, che non possiamo che evocare, l’interessante è proprio come Lanzmann in ultima analisi accusi Haenel di un’immoralità che lui stesso in altre occasioni rivendica: prolungare la parola oltre l’archivio, manipolare i fatti per fini ideologici. Ma che cosa sono Shoah, Pourquoi Israël?, Tsahal se non i capitoli di una grande impresa di manipolazione ideologica? Se c’è una lezione che Lanzmann, suo malgrado, ha lasciato è che non esistono racconti oggettivi ma solo manipolazioni piccole e grandi. Le sue sono state, in tutti i sensi, monumentali.