Un letto rifatto e due materassi per terra. Sulla parete rosa della stanza spoglia c’è un foglio bianco con il programma della settimana. Dal 30 novembre al 7 dicembre il calendario è pieno, il 3 c’è segnato solo un nome: «Wissem».

Quel giorno la famiglia di Wissem Abdel Latif ha scoperto la morte di loro figlio, fratello, cugino o nipote. «Il consolato tunisino ha chiamato il padre per dire che suo figlio era morto in un ospedale a Roma, quasi una settimana dopo il decesso. Perché aspettare così tanto?», le parole di Belgacem Abdelkader, uno dei cugini di Wissem che vive a Lucca. Una domanda a cui non è stata data una risposta. Ma non è l’unico quesito mancato: Wissem Abdel Latif aveva 26 anni, era originario di Kebili, nel sud della Tunisia, ed è morto all’ospedale San Camillo il 28 novembre scorso in circostanze ancora da chiarire. Era arrivato in Italia a inizio ottobre. Dopo un periodo di quarantena ad Augusta è stato trasferito al Cpr di Ponte Galeria prima di entrare all’ospedale Grassi il 23 novembre per una valutazione più appropriata dei suoi disturbi psichiatrici. Di questa storia si sa poco altro e rimangono dei vuoti da riempire, come vuota è la stanza di Abdel Latif e di sua sorella Rania, in sciopero della fame da quando ha scoperto della morte di Wissem.

 

USCITI DALLA CAMERA del 26enne, per tornare all’ingresso bisogna scendere una scala senza corrimano, percorrere un breve corridoio e da lì si esce su una piccola strada poco distante dal centro di Kebili. Qui da giorni l’intera famiglia si è riunita attorno al dolore di Kamel Abdel Latif e di Henda Ben Ali, i genitori di Wissem. Non li lasciano mai soli, mangiano e vivono insieme alternandosi fra le tre case di famiglia disposte una dopo l’altra. La via è una lenta processione di sostegno per un lutto che ha sconvolto la vita degli Abdel Latif e non solo. Una famiglia unita che chiede verità e giustizia per un ragazzo che era partito «per dare un futuro degno ai genitori e alle sorelle».

Le abitazioni si snodano attraverso grandi spazi comuni, sia all’aperto che al chiuso. L’ospitalità è di casa, la generosità anche. All’improvviso compare la mamma di Wissem accompagnata dalla sorella poco più che ventenne. Abito scuro e un viso delicato rigato dalle lacrime. Si siedono accanto al padre Kamel, malato da tempo e con un evidente tremolio alle mani. Resta in silenzio per gran parte del tempo, sono gli occhi a parlare per lui: spenti e ancora increduli.

ANCORA PRIMA di prendere parola, la madre Henda incrocia le braccia come a mimare chi sta cullando il proprio figlio: «È l’unico maschio, è sempre stato con me fin da bambino, aveva voglia di vivere e di aiutare gli altri, è stato sfortunato qui in Tunisia, è stato sfortunato. È partito per aiutarci, invece è morto. Perché?». Una seconda domanda a cui servirà ancora del tempo per ottenere una risposta.

«Ha vissuto una vita povera, mi ripeteva in continuazione che la Tunisia non gli aveva assicurato un futuro, l’Europa invece era la patria dei diritti – racconta Houssem Ben Fraj, cugino di Wissem, mentre si districa tra le diverse chiamate di lavoro che lo costringono a ritrovare una quotidianità lacerata – Pensava di andare in Francia, a Parigi, a lavorare con suo zio in pizzeria. Ha lasciato i suoi studi a 18 anni, ha cercato lavoro a Tunisi da altri cugini, ha lavorato in un supermercato e dopo per il Covid è tornato a Kebili, è andato nella capitale una seconda volta e lì sui giornali ha cominciato a leggere che stavano partendo tutti per l’Italia. Così è tornato qui e dopo è successo quello che è successo».

KEBILI, al netto di essere la capitale dell’omonimo governatorato, è una piccola città del sud della Tunisia. Pochi café, poche scuole. C’è poco di tutto ma, come nel resto del paese, sono tanti i giovani che animano le vie del centro. Si respira l’aria di un luogo che ha vissuto un passato fatto di turismo, qualche chilometro più in là inizia il deserto del Sahara, e che oggi vive il destino di una regione marginalizzata con un’economia a velocità zero. Zero come le prospettive che aveva Wissem quando ha deciso di prendere il mare verso Lampedusa.

Oggi sono diverse le persone impegnate a ricostruire gli ultimi giorni di Wissem Abdel Latif. C’è Majdi Karbai, il deputato tunisino che per primo ha raccolto la testimonianza dei familiari, tra cui il fatto che Wissem non soffrisse di disturbi psichiatrici al momento della partenza. C’è la campagna LasciateCIEntrare, in prima linea per chiedere verità e giustizia e denunciare le condizioni detentive all’interno dei Cpr. C’è Stefano Anastasia, garante delle persone private della libertà per le Regioni Lazio e Umbria, il quale ha ricostruito le date esatte del percorso in Italia di Wissem: «Abdel Latif arriva in Italia a inizio ottobre. Dal 2 al 12 ottobre effettua un periodo su una nave quarantena ad Augusta. Il 13 ottobre entra al Cpr di Ponte Galeria dopo avere ottenuto il certificato di idoneità alla vita di costrizione. Il 25 ottobre gli viene prescritta da parte dello psicologo del Cpr una visita psichiatrica per alcuni disturbi che lui stesso aveva segnalato. L’8 novembre lo psichiatra della Asl ipotizza uno stato schizoaffettivo, a cui segue la prescrizione dei medicinali. Il 18 novembre, dopo alcuni effetti collaterali dovuti alla somministrazione dei farmaci, viene chiesta una seconda perizia che avviene il 23 novembre. Lo psichiatra ordina il ricovero ospedaliero per lo stesso giorno. Viene portato in ambulanza al pronto soccorso dell’ospedale Grassi. Dopo due giorni viene trasferito al reparto psichiatrico del San Camillo dove vengono effettuate misure di contenzione fino al 28 novembre quando Wissem muore».

C’È ALESSANDRO CAPRICCIOLI, consigliere regionale di +Europa Radicali, che insieme ad Anastasia ha potuto visionare i documenti sanitari. Ha effettuato anche una seconda visita ispettiva al Cpr lo scorso 7 dicembre, dove sono emersi elementi nuovi: «Ho parlato in particolare con due ragazzi. Mi hanno detto che Wissem era tranquillo, aveva problemi per dormire la notte ed era bravissimo a giocare a pallone. Alla domanda se fosse successo qualcosa con la polizia, hanno raccontato che Abdel Latif aveva riferito di avere subito delle percosse, togliendosi i due cappelli avrebbe mostrato la testa gonfia. Questo me l’ha confermato un altro ragazzo che era partito con lui».

C’è Francesco Romeo, l’avvocato della famiglia Abdel Latif, che ha rilasciato un comunicato per denunciare alcune incongruenze: «Ho appreso che è già stata svolta l’autopsia sul corpo di Wissem Abdel Latif. I familiari non sono stati avvisati e non hanno potuto nominare un proprio medico legale per partecipare all’autopsia: si tratta di una grave superficialità».

Stando alle varie testimonianze raccolte i quesiti da chiarire per un ragazzo morto tra le braccia dello Stato restano tanti. Henda Ben Ali, la mamma di Wissem, per il momento si accontenta solo di una cosa: «Adesso voglio solo seppellire mio figlio. Ridatemi il corpo».