Ci sono tre scenari nel futuro di Trump: nel primo potrebbe finire in galera; nel secondo potrebbe andare in esilio e nel terzo potrebbe ritrovarsi a dormire in macchina. A dire la verità c’è anche un quarto scenario, più ottimistico, nel quale potrebbe ripresentarsi come candidato alla presidenza nel 2024 ma questo è di gran lunga il meno probabile, quindi non ce ne occuperemo.

Partiamo dall’inizio: Trump ha vissuto pericolosamente tutta la sua vita, speculando, corrompendo, evadendo le tasse e quant’altro. L’ha sempre fatta franca, un po’ per il potere del denaro, un po’ per la sua aggressività e un po’ per la facilità con cui chi avrebbe dovuto difendere l’interesse pubblico si faceva intimidire o raggirare. Adesso è arrivato il momento della verità: Trump non ha mai voluto pubblicare le sue dichiarazioni dei redditi e l’Internal Revenue Service (IRS) ha finora mantenuto il silenzio ma questa scelta era provvisoria. Se l’IRS decidesse di riesaminare il megarimborso fiscale di 72,9 milioni di dollari concessogli nel 2010 l’ex presidente si ritroverebbe con un debito di quasi 100 milioni verso il fisco in un momento in cui le sue varie proprietà in giro per il mondo sono molto meno redditizie di un tempo e perfino i suoi consulenti fiscali lo hanno abbandonato dopo l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio.

Al contrario dell’Italia, l’evasione fiscale negli Usa è un reato preso molto seriamente, come scoprirono Al Capone nel 1931 e molti altri affaristi dopo di lui. Quindi la possibilità di una condanna è reale, tanto più che la procura di Manhattan ha aperto un’indagine sulle tasse dovute allo Stato di New York, che sono una questione separata da quelle federali. Il procuratore Cyrus Vance (un democratico) ha sulla sua scrivania un corposo dossier che riguarda decine di potenziali violazioni della legge e può contare sulla collaborazione dell’ex braccio destro di Trump Michael Cohen, quello che maneggiava gli affari sporchi del capo, per esempio i consistenti pagamenti alle donne che avevano avuto relazioni con il boss, Stormy Daniels e Karen McDougal. Cohen rischiava decenni di galera per una infinità di reati e ha scelto di collaborare.

Le questioni fiscali sono solo una piccola parte dei problemi di Trump perché da qualche giorno ci sono anche due dossier legati al suo disperato tentativo di rovesciare il risultato elettorale a favore di Joe Biden. Prima di tutto c’è l’indagine sulla telefonata di Trump al procuratore generale della Georgia Brad Raffensperger nella quale l’allora presidente chiedeva di «trovargli» gli 11.780 voti necessari per rovesciare il risultato in quello Stato. Poiché interferire con le operazioni elettorali è un reato e la telefonata è stata registrata, la situazione legale di Trump nel processo che si terrà nei prossimi mesi ad Atlanta è quanto meno precaria.

Più grave ancora è la denuncia effettuata nei giorni scorsi a Washington dal deputato democratico Bennie Thompson per «incitamento all’insurrezione». Il fatto che Trump sia stato assolto dal Senato nel processo di impeachment tenutosi la settimana scorsa non significa che sia al riparo dalle procedure giudiziarie ora che è un privato cittadino.

In particolare, una legge del 1871 promulgata per colpire il Ku Klux Klan prevede pene severe per chi interferisca con le operazioni elettorali o ostacoli il regolare funzionamento di uffici governativi. Era stata concepita per proteggere le amministrazioni degli Stati del Sud a maggioranza nera dal terrorismo dei bianchi sconfitti nella guerra di Secessione ma evidentemente si applica perfettamente a una situazione in cui qualcuno invita a dare l’assalto al Congresso per impedire il conteggio dei voti elettorali. Anche in questo caso le prove raccolte dall’Fbi dopo il 6 gennaio sono più che abbondanti e addirittura il leader dei senatori repubblicani Mitch McConnell, che per quattro anni lo aveva sostenuto e protetto, ha dichiarato che non ci sono dubbi sulle di Trump responsabilità negli avvenimenti di quel giorno.

Queste indagini penali hanno un riflesso anche sul terzo scenario, quello della rovina economica del palazzinaro di New York diventato presidente: Trump ha ottenuto successo investendo sul suo marchio, sulla scritta «Trump» ossessivamente ripetuta nei suoi palazzi, nei suoi campi da golf e negli striscioni o nei berretti dei sostenitori.

La sua fallita campagna per rimanere al potere a qualsiasi costo ha però reso tossico proprio il brand: Twitter e Facebook hanno cancellato il suo account, Amazon ha impedito a un’altra piattaforma, Parler, di restare sui suoi server, le banche rivogliono i loro soldi, gli hotel e club del golf resteranno deserti.

Trump è sempre stato un finto miliardario, le sue residenze pacchiane e scintillanti mascheravano un impero costruito sui debiti e sugli imbrogli: la fine della sua avventura politica potrebbe significare anche la fine del suo successo economico.