In crisi di astinenza televisiva Renzi, ricomparendo in video a Che tempo che fa dopo un’assenza di circa due mesi dalla tv, compie, almeno dal punto di vista mediatico, tre gravi errori. Uno: dimostra di non aver capito fino in fondo la lezione durissima del 4 marzo, e cioè che la sua esposizione è stata eccessiva e debordante, oltre ogni limite sia per la frequenza delle apparizioni che per il lungo tempo in cui si è spalmata nel corso di oltre quattro anni, ragione non ultima del suo fallimento.

Due: ritornando all’«io» dopo la brevissima stagione del «noi», insiste nella personalizzazione dello scontro e nel mettere al centro la propria figura, un fatto che già in passato più volte gli era costato in termini di voti e di consensi, come del resto (gli) avevano spiegato tutti gli specialisti in materia.

Terzo: attesta plasticamente il suo disprezzo per il partito, la cui direzione era stata convocata 72 ore dopo proprio per discutere ed affrontare la questione del confronto con Di Maio, bypassando disinvoltamente qualsiasi organismo intermedio per rivolgersi ancora una volta direttamente ai cittadini tramite il piccolo schermo.

È qui, in fondo, il succo del renzismo: l’uso abnorme dei media, la personalizzazione estrema del confronto, il direttismo politico-mediatico usato contro il partito. Tutti elementi che non gli hanno portato affatto bene ed anzi sono stati essenziali per le sue sconfitte. Diciamo tutto questo senza giudicare l’ennesima comparsata della domenica, immaginiamo richiesta dallo stesso Renzi a Fabio Fazio, che si è prestato con la trasmissione a fare da strumentale megafono per l’ex premier. E senza volerci interrogare, come dovremmo, se siano mai possibili ancora una tv ed una informazione pubblica che funzionano così, sfacciatamente a comando.

Quel che è certo è che la presenza nel programma di Fazio del solito Renzi conferma, per quanto ce ne fosse bisogno, che l’ex sindaco, nonostante alcune dichiarazioni e promesse, non dà nessun segno di ripensamento di strategie e comportamenti pur dimostratisi fallimentari. Come lo scorpione della fiaba.