Lo scorso venerdì, dopo due settimane dal brutto incidente sulla capitale di Israele, la trasmissione preserale della Rai «L’Eredità» è ritornata sull’argomento. Il conduttore Flavio Insinna ha cercato di motivare il perché della clamorosa correzione della giusta risposta della concorrente, Gerusalemme in luogo di Tel Aviv.

È noto che le capitali non sono un’opinione. E non è lo stesso, ad esempio per l’Italia, nominare Torino o Firenze e non Roma. Peggio. La replica non solo non ha davvero corretto l’errore, ma si è limitata ad annullare la domanda fatta nella puntata dello scorso 21 maggio, adducendo argomentazioni un po’ imbarazzanti. Tipo: ci siamo messi in una questione più grande di noi, vi sono opinioni diverse, e così via.

Del resto, quattordici giorni non sono pochi per un prologo correttivo di un minuto. Ciò induce a pensar male: per quante scrivanie è passato un siffatto testo, come se fosse un’opera di complessità teoretica o filologica?

Comunque, dopo lettere, sit in, proteste, almeno la citazione è stata ottenuta dalla Comunità palestinese di Roma e del Lazio, insorta giustamente perché l’evocazione di Gerusalemme come capitale porta con sé mille sottotesti, dall’obbedienza ai diktat unilaterali di Donald Trump e a quelli omologhi dell’attuale leadership israeliana, alla negazione dei trattati nonché delle prese di posizione delle Nazioni unite.

Permetterà Insinna se si obietta al suo intervento che proprio il contravvenire al diritto internazionale fa scivolare la Rai su territori che non le competono.

Ma parliamo davvero della Rai? O di società, come in questo caso la potente «Banijay» (quasi un monopolio ormai), che forniscono i cosiddetti format, uguali in diversi paesi tanto da configurare un «pensiero unico» dell’intrattenimento?

Perché una trasmissione come «L’Eredità» non viene prodotta all’interno del servizio pubblico, tra l’altro verificando seriamente le domande (peraltro sono trasmissioni registrate) dei quiz, ora seguite chissà dove e – come si è visto – persino con qualche leggerezza? Non si può pretendere nelle scuole o nei concorsi risposte corrette e tempestive ai test, quando la principale azienda culturale italiana incorre in svarioni così rilevanti. Non sono i soli, si dirà. Proprio no.

Sabato scorso, ad esempio, nel corso di un’intervista a «Tv talk» nessuno ha corretto Caterina Balivo che incredibilmente insigniva Irene Pivetti del titolo di prima presidente donna della camera dei deputati. Eppure, recentemente proprio la stessa Rai aveva trasmesso un riuscito film per la televisione sulla figura di Nilde Iotti, autorevolissima e rimpianta. Gli svarioni sono frequenti, con diverse soglie di gravità.

Insomma, si pone ancora una volta il tema degli appalti, troppi, costosi, tali da umiliare le validissime professionalità interne: alcune di esse stanno ormai scomparendo, senza lasciare memoria e successori. Simile tendenza contrasta pure con il senso del contratto di servizio, che è teso invece a valorizzare proprio le risorse interne.

Torniamo alla vicenda di Tel Aviv-Gerusalemme.

Un suggerimento alla Rai. Il caso è scoppiato e nessuno vuole soffiare sul fuoco. Non sarebbe utile, però, pensare ad uno «speciale» di approfondimento dedicato alla vicenda della Palestina, sulle cui sorti è da tempo calato il silenzio?

Oggi l’attenzione al villaggio globale è essenziale pure per capire ciò che accade in casa nostra. Se è vero che è iniziata una nuova «guerra fredda», sarà bene accendere i riflettori con scienza e coscienza su uno dei quadranti delicati del mappamondo, dove si gioca una partita enorme.