Il festival Inteatro di Polverigi (dove il paese è il nome abituale con cui la manifestazione viene chiamata) compie quarant’anni. Che non sono pochi, ma non opacizzano minimamente quella voglia di nuovo, quella leggerezza delle proposte, quella umiltà dell’ascolto che del festival sono le caratteristiche. Quindi si torna qui ad ogni inizio d’estate come si fosse andati via da pochi giorni, sicuri che qualcosa di interessante ci sarà. E all’inizio era un problema dividersi equamente tra qui e Santarcangelo, le cui date parzialmente coincidevano. Oggi resta una sicurezza, nella pletora festivalier/turistica che rispetto ad allora è dilagata. Il programma di quest’anno, come sempre curato da Velia Papa, ha offerto in questa prima settimana un insieme piuttosto vario di quella che è oggi la performance, un occhio alla composizione e alla disposizione scenica delle arti visive, l’altro a quelle che restano le radici prime della teatralità e della danza.

Alcuni nomi già conosciuti,da Alessandro Sciarroni al Colletivo cinetico, altri più rari da vedere, come il belga Benjamin Verdonk. Il quale, accompagnato da due chitarristi e da una voce narrante, modula la sua Song for Gigi disegnando geometrie sempre diverse (una sorta di test di Rorschach di carta e di legno in eterno movimento), gestendo manualmente un ancor più infinito groviglio di fili che muovono linee, spazi, geometrie, possibili ambienti e cornici plurime, su un piano verticale di fronte al pubblico. È l’inanimato che prende forma e si esprime, per immediatamente cambiare; è la culla del pensiero e delle sue forme che danno traccia abitativa al racconto che ascoltiamo. Soave e leggero quanto curioso.

Ben più movimentato e allusivo è invece il vero show che un altro artista, greco stavolta, e dal nome evocativo di Euripides Laskaridis, apparecchia sul palcoscenico dove tanti anni fa scoprimmo William Kentridge e forse anche Alain Platel. Titans è il titolo della performance vista giovedì (ma stasera l’artista presenta quello che è stato il suo primo successo internazionale, Relic), e da un artista greco che lavora tra Atene ed Epidauro, ci si potrebbe attendere chissà quale figurazione mitologica. Questi Titani sono invece maledettamente contemporanei: come nell’antichità, ancor prima dell’avvento degli dei, essi riunivano in sé umano e sovrumano. Qui l’artista rovescia la prospettiva, mostrando di ogni illusione «soprannaturale» l’inevitabile fallimento cui è destinata.

Nella sua calzamaglia rosa, la pancia rigonfia come fosse incinto, addosso degli abiti senza misura e senza genere, Laskaridis con l’aiuto di un’ombra scura che pare doppiarlo (Dimitris Matsoukas) scopre il forzato fascino del fallimento davanti ad ogni illusione. Con il suo stile spudorato, da commedia o da café chantant, ci dà una temperatura della Grecia davvero surriscaldata, forse anche fuori controllo, se non ci fosse la consapevolezza originaria che ogni invenzione grandiosa («titanica» appunto) non sia destinata all’insuccesso. È piuttosto il caos (che affolla la scena di luci, polistirolo grattugiato, fumi, vapori, musichette, orribili oggetti di guarnizione, e maschere e parrucche) che bisogna saper organizzare e padroneggiare. Con molti sorrisi e qualche risata, ma soprattutto senza illusioni. È una sorta di infelicità nazionale, che pure trova l’energia per andare avanti, con o senza paillettes.

Solo chi cade può risorgere, sembra avvertire il profeta pasticcione. Che la sa lunga, e anche vivacemente raccontare. Non c’è proprio nessuno, lassù, che ci ami. Da domani il festival si sposta ad Ancona dove l’iraniano Nassim Soleimanpour metterà alla prova cinque brillanti attori italiani, facendo loro improvvisare un suo testo.