Sono giudici in formazione: svolgono uno stage di 18 mesi presso gli uffici giudiziari necessario per l’accesso al concorso di Stato. In alternativa si può fare il praticantato in uno studio legale, o frequentare una scuola di specializzazione, ma loro – l’esercito dei tirocinanti – hanno scelto di entrare subito in tribunale per dare una mano ai magistrati e velocizzare le pratiche. Questa figura è stata istituita nel 2013 – con il «Decreto del fare» del governo Letta – che aveva previsto anche una borsa di studio per tutti, di 400 euro. Ma ora i soldi si sono esauriti, e si è finito per applicare il classico «modello Italia»: lavorate gratis.

Per protesta un migliaio di tirocinanti – circa 1300, spiegano loro stessi – ha inviato una lettera al ministro della Giustizia Andrea Orlando, chiedendo di rifinanziare la legge e di tornare a erogare la borsa a tutti. Al momento, infatti, i 400 euro sono garantiti solo a chi si trova sotto una certa soglia di reddito Isee, così come avviene normalmente per le borse universitarie: ma il punto, contestano i tirocinanti, è che qui non si tratta più di studio ma di un vero e proprio lavoro.

Lo dice, scrivono nella lettera gli stagisti, la stessa legge approvata sotto il governo Letta: «Lo stage giudiziario non è nato infatti come attività di studio – segnalano al ministro Orlando – in quanto è stato istituito dal dl 69/2013 (cosiddetto “Decreto del fare”) con cui il governo intendeva fornire “Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia”. Nel titolo III del suddetto decreto legge è contenuto l’articolo 73 che, appunto, istituisce il nostro tirocinio, il quale veniva creato al fine di migliorare l’efficienza del sistema giudiziario. Di conseguenza, traspare la chiara intenzione del governo di fornire nella maniera più veloce possibile uno strumento che aiuti a “smaltire” il carico di lavoro degli uffici giudiziari».

In seguito a quella legge sono state create delle graduatorie di merito in ciascun ufficio giudiziario – requisiti minimi laurea in legge con almeno 105/110 ed età sotto i 30 anni – e quindi via via i tirocinanti sono entrati ad assistere i giudici: un periodo formativo per loro, ma anche – almeno era l’intento della legge – un modo per velocizzare una giustizia troppo lenta. «Nessun compenso» economico, prevede esplicitamente il decreto, e «non si determina il sorgere di alcun rapporto di lavoro subordinato o autonomo né di obblighi previdenziali e assicurativi», ma nel contempo si è vincolato lo svolgimento all’erogazione di una borsa di studio non inferiore a 400 euro mensili.

Nel 2015 la borsa l’hanno presa tutti, ma nel 2016 il numero dei tirocinanti è stato aumentato a fronte di finanziamenti rimasti immutati: da qui la scopertura per il migliaio di stagisti che si è visto escludere in base al proprio Iseeu (l’Isee universitario: si è fissato che non deve essere superiore ai 42.012,21 euro annui).

I tirocinanti contestano anche il sistema di formazione delle graduatorie, che definiscono «assolutamente oscuro e privo di trasparenza», e ritengono che l’esclusione di centinaia di loro dal beneficio «sia ingiusta perché la formula della borsa di studio basata sul valore Iseeu cerca in maniera sibillina di equiparare lo stage al percorso universitario, evidenziandone unicamente il profilo formativo», mentre al contrario «il nostro tirocinio è di fatto ben più equiparabile a una effettiva posizione lavorativa, dalla quale mutua anche il regime tributario, posto che la borsa è equiparata sul piano fiscale alle retribuzioni derivanti da lavoro dipendente e concorre a formare reddito».

Infine, concludono, «risulta incomprensibile il fatto che lo Stato, dapprima imponga alle aziende e ai liberi professionisti di retribuire, anche solo sotto forma di rimborso spese, i propri stagisti e poi si sottragga a tale onere» proprio con i laureati selezionati per accelerare il sistema giustizia.