Una volta, quasi in ogni discussione in coda a una proiezione, c’era sempre chi interveniva per dire al realizzatore come secondo lui avrebbe dovuto essere il film, ossia come lui l’avrebbe fatto. Oggi, grazie all’accessibilità del digitale , chiunque ha la possibilità di manipolare le immagini del web. È una sorta di estensione del selfie e permette a ognuno di diventare autore di qualcosa di visibile, da condividere con amici e conoscenti. Anche il cinema si serve sempre più speso di citazioni, di remake, di frammenti del passato rivisitati nell’ottica del presente. Un esempio per tutti è il cinema di Tarantino. E ogni giorno il web è inondato da una proliferazione di immagini. La due giorni di discussioni e proiezioni avvenuta alla Casa del Cinema il 23 e 24 gennaio con il titolo Usa e Getta, l’immagine cinematografica nell’era digitale ha esplorato l’ampio spettro delle realizzazioni che utilizzano il found footing, ossia le immagini ricilate che in altro contesto acquistano significati differenti. La voce più autorevole nelle discussioni è stata quella di Pietro Montani, autore di alcuni dei testi fondamentali sul tema, che già da molti anni si occupa di ciò che è cambiato nella percezione e nella fruizione dell’immagine in movimento in seguito all’evoluzione della tecnica e all’uso del digitale, ossia di ciò che l’elettronica ha reso visivamente più immediato ed accessibile. Montani ha parlato di una nuova autenticazione delle immagini “trovate”, che, decontestualizzate ed usate da altri soggetti, acquistano un nuovo senso, modificato in base ad esigenze sempre diverse e sempre più legate alla contemporaneità. Marco Bertozzi, specialista del cinema documentario, ha parlato invece del fascino delle immagini perdute e della possibilità di ritrovarle in una nuova luce attraverso il recycled cinema, che ne mette in evidenza i significati riposti. Questo spostamento del significato è una pratica nata con le Avanguardie Storiche negli anni ’20 del ‘900, quando Duchamp fotografava un orinatoio e lo ribattezzava «Fontana» invertendone radicalmente il significato, procedimento arrivato fino a noi attraverso gli intricati percorsi dell’arte contemporanea. Sembra un discorso complicato, ma questo spostamento, questa rielaborazione del significato sta anche alla base del lavoro prevalentemente documentaristico di Antonietta De Lillo, che ha ideato l’incontro e che è la più impegnata in un processo di recupero dell’esistente e di creazione di nuovi materiali da comporre, secondo la forma originale del film partecipato, ossia un film costruito con frammenti di altri film di varia origine. La regista, che ha iniziato come fotografa sedotta dall’uso della tecnica e delle sue sempre più avanzate possibilità, ha parlato del suo disagio iniziale in un lavoro che, pur rivolto alla realtà circostante, la condannava ad una solitudine creativa poco adatta alla sua personalità di napoletana intraprendente e socievole. Il suo passaggio al cinema, che è un lavoro di équipe, nasce proprio dal desiderio di cambiare questa condizione per comunicare, oltre che con il pubblico attraverso l’opera, anche con i vari collaboratori. È il caso di Pranzo di Natale (2010) in cui viene raccontata da persone di varia estrazione sociale la realtà della loro festa natalizia, che appare del tutto diversa da ciò che vuole la retorica della famiglia riunita sotto l’albero con i regali e il panettone. La realtà, e in particolare quella italiana, è ciò che sta a cuore alla De Lillo, che in questo caso la ritrae con l’aiuto di un montaggio svelto, sintetico, e di una polifonia di voci e volti che rimbalzano e si intersecano creando un contrasto stridente con le luci e gli addobbi festosi delle strade. C’è un’Italia convenzionale e un’Italia reale, ed è quest’ultima che la regista vuol cogliere, con una sottile nostalgia del neorealismo e lo sgomento di constatare che le condizioni su cui quel cinema si fondava non esistono più. Anche di questo si è parlato nel corso dell’incontro, con persone che pur lavorando nel cinema vivono lontane le une dalle altre. Così come si è parlato della Roma cinematografica degli anni ’50, ’60, ‘70, in cui chi faceva cinema si incontrava, discuteva dei propri progetti, e, malgrado i contrasti e le inevitabili gelosie, si entusiasmava e collaborava creando il nocciolo duro di un cinema italiano che si fondava, oltre che su solide basi produttive, sulla circuitazione dei rapporti e delle idee. Questo circuito ideale, questo desiderio di coivolgimento, è alla base del progetto di Marechiaro, la società di produzione della De Lillo che ha da poco realizzato un nuovo film partecipato Oggi insieme, domani anche, storie d’amore e di separazione ai nostri tempi, presentato con successo al Torino Film Festival lo scorso autunno. Si tratta nuovamente di un film che contiene il girato di una trentina di autori sul tema dell’amore, del matrimonio, ma anche della separazione, dell’abbandono, delle nuove forme di convivenza, degli affetti, dei diritti delle coppie omosessuali. Storie diverse raccontate da differenti punti di vista che mostrano un quadro dell’Italia contemporanea del tutto anticonvenzionale ed affrontano di petto e in modo molto movimentato anche la crisi esistenziale ed economica, partendo dalla rievocazione delle lotte per il divorzio fino alla liberalizzazione delle relazioni sessuali e alla formazione di nuovi legami familiari. Il tutto con il ritmo di una ballata eterogenea lieve e corposa al tempo stesso, sulle note di un tango interpretato da coppie insolite, a Roma, sotto i portici di Piazza Vittorio. Gli autori dei film che compongono il puzzle conservano comunque la proprietà e l’integrità delle loro opere, con un interessante meccanismo di scambio di prestazioni che è forse l’elemento più originale della produzione: hanno avuto infatti da Marechiaro la possibilità di montare e portare a compimento i loro film ed hanno ceduto in cambio le loro riprese per il film partecipato, secondo le ultime regole del baratto, rispolverato dalle esigenze di un’economia sostenibile. Il prossimo progetto ha come tema L’uomo e la bestia e la clip di lancio proiettata invita tutti coloro che lo desiderano a partecipare. Ogni sedia ha il suo rumore era il bel titolo del primo film di De Lillo sulla magnetica poetessa Alda Merini (1995, seguito da La pazza della porta accanto che riprende il soggetto nel 2013) e si ha la sensazione che, con il sistema proposto da Marechiaro, ogni autore possa conservare il suo «rumore» nonostante la cessione ad altri del proprio girato. Questa formula produttiva infatti mette in crisi la tradizionale idea dell’autore lasciando che i materiali interagiscano in qualche modo tra loro, e che lo spettatore ne selezioni l’importanza a seconda della sua sensibilità personale. Ciò implica un’ulteriore ‘democratizzazione’ del significato che si apre all’immaginazione interattiva cedendo al pubblico una sorta di quota autoriale. L’incontro ha visto inoltre gli interventi di coloro che attualmente custodiscono la maggior parte delle fonti cinematografiche a cui attingere, come le teche RAI (Maria Pia Ammirati ed Enrico Salvatori) che hanno digitalizzato gran parte delle trasmissioni ma rifiutato un accordo con You Tube per rendere pubblici i loro materiali, gli Archivi della Cineteca Nazionale (Emiliano Morreale), custode dei film prodotti in un cinquantennio felice, l’Archivio Storico dell’Istituto Luce (Roland Sejko) che conserva tutta l’attualità di un’Italia in ascesa. Esiste però per tutte le fonti un problema di diritti da regolare, i cui costi sono spesso troppo alti per i modesti budget del cinema documentario. Molti film tra i più interessanti degli ultimi anni che utilizzano il found footage sono stati proiettati negli intervalli delle discussioni. Un’ora sola ti vorrei (2002) di Alina Marazzi, ad esempio, utilizza filmati di famiglia girati dal nonno per evocare la madre della regista morta suicida quando lei aveva solo 7 anni. La lettura dei diari ritrovati fa da colonna sonora per costruire un personaggio che le sfugge e che resta un affetto inattingibile del suo passato. Il film, premiato al Festival di Torino e segnalato a Locarno, ha viaggiato molto nei canali indipendenti ed ha sempre riscosso il favore e la commozione del pubblico contribuendo notevolmente all’affermazione della regista. Di tutt’altro genere La voce di Berlinguer (2013) di Mario Sesti e Teho Teardo, che evoca, intensificandola, la voce e l’immagine dell’ultimo leader italiano capace di entusiasmare le folle. My sister is a painter (2014) di Virginia Eleuteri Serpieri illustra il lavoro della sorella e al tempo stesso delinea il controverso rapporto con una madre perduta inserendo riprese sperimentali di un bacino d’acqua che allude al materno e ricorre per tutta la durata del film mescolandosi al dibattito sull’arte e sul presente della protagonista. Bambini nel tempo (2015) di Roberto Faenza e Filippo Macelloni è invece un documentario prodotto direttamente da Maria Pia Ammirati delle Teche RAI, e racconta l’Italia dagli anni ’50 in poi attraverso lo sguardo e la vita dei bambini, i loro giochi, le loro abitudini, i loro desideri, con escursioni avanti e indietro dal passato al presente e spaccati di realtà che mostrano il loro vissuto dalle città alle più smarrite province. Un film vivace e intelligente, dotato di una particolarità: la sua versione interattiva, per cui da un tablet o da un pc si potrà chiedere la visione delle fonti ed approfondire gli argomenti con la versione integrale dei filmati da cui sono state prese le sequenze. Silvana, Adele, Enzo e Fabio sono i protagonisti napoletani di Le cose belle (2013) di Agostino Ferrente e Giovanni Piperno, che sono andati a ritrovare gli adolescenti che avevano intervistato nel precedente film Intervista a mia madre (2000) a distanza di tempo per entrare nuovamente nelle loro vite e capire cosa era successo nel frattempo. Le speranze e le aspirazioni di un tempo appaiono qui completamente disilluse, assieme al degrado di una città (e di un paese) in cui le famiglie che sostenevano i progetti degli adolescenti si sono trasformate in una palla al piede, che intralcia il cammino e spegne il futuro. L’uso del dialetto napoletano, e di una camera che si muove istintivamente, senza programmazione, assieme all’inserimento di canzoni accuratamente scelte in base alle situazioni fanno del film una realizzazione piacevole a vedersi malgrado l’inevitabile pessimismo dei quattro protagonisti. Paradossale e sorprendente per chi non l’abbia già visto è La nave dolce (2012) di Daniele Vicari (autore del film Diaz sui fatti di Genova), sullo sbarco della nave Vlora con 20.000 albanesi nel porto di Bari l’8 agosto del ’91, dopo la fine del regime di Enver Hoxha. Il film segue gli sviluppi della situazione imprevedibile e inattesa e i conflitti della città con il governo di allora attraverso le vicende di alcune persone oggi immigrate e utilizza filmati dell’Archivio del Film Albanese e di Telenorba per raccontare la vicenda della prima massiccia immigrazione e del panico generato dalla sorpresa e dall’ingovernabilità di una situazione allora senza precedenti. Le immagini della nave che erano circolate sui giornali all’epoca dello sbarco e i relativi articoli non hanno mai potuto generare l’impatto emotivo che il film di Vicari riesce a suscitare. Per tutta la vita (2014) di Susanna Nicchiarelli utilizza film di famiglia per raccontare attraverso la vita matrimoniale dei suoi genitori intervistati l’evoluzione dei rapporti coniugali nella mentalità italiana e la possibilità di diversi rapporti personali anche dopo la separazione. Infine 87 ore (2015) di Costanza Quatriglio rappresenta forse il limite estremo nell’uso del found footage, perché qui non si tratta di utilizzare sequenze girate da altri ma riprese di una telecamera fissa che registra in modo anonimo ciò che avviene in una stanza, in questo caso una stanza d’ospedale a Vallo della Lucania dove un maestro elementare, Francesco Mastrogiovanni, è stato legato perché sottoposto a TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), una stanza dove quest’uomo è morto dopo 87 ore di ricovero senza essere stato curato, nutrito, lavato, medicato per le escoriazioni provocate dai lacci, e senza che la famiglia fosse adeguatamente informata. Il film, malgrado la rigidezza delle riprese anonime, è diventato nelle mani della giovane regista un racconto partecipe, duro, ma anche un documento importante (prodotto e trasmesso dalla RAI) e un atto d’accusa nei confronti di una procedura sanitaria aberrante di cui Mastrogiovanni non è stato la sola vittima.