La domanda che parrebbe lecito porsi fin dall’inizio, non affiorerà neppure una volta usciti. Quanto varranno capolavori così? Forse proprio il fatto di non porsela rivela il pregio meno evidente del profluvio di arte orafa indiana raccontato dalla mostra i Tesori dei moghul e dei maharaja, ospitata al Palazzo Ducale di Venezia. Il valore è ben altro, non quantificabile in cifre; è storia di guerre, di poteri, di fedi, di culture, di conquiste, rappresentati, simboleggiati, in gioielli incredibili ma veri. La rotta principale si muove dentro gli spazi dell’immenso salone che si apre oltre l’ingresso.
Dal centro del soffitto, una cascata di fili luminosi scende sul pavimento nero e si diffonde sulla trasparenza delle vetrine. Stupore e smarrimento ad ogni passo, ad ogni sosta. Stupore e smarrimento che provarono, non molto dissimili, i viaggiatori in India dal XVI al XIX secolo. Tornando a François Bernier, il francese descrive il Tesoro di Shah Jahan, imperatore moghul dal 1628 al 1658, tutto sommato modesto quanto a denaro sonante, ma «È vero che non considero in questo tesoro la gran quantità di gioielli d’oro e di argento lavorati e incrostati di pietre e preziosi, né quella straordinaria quantità di perle e pietre preziose di ogni qualità, di grandi dimensioni e di ingentissimo valore; non credo che al mondo ci sia sovrano che ne possieda quantità maggiori». Limitarsi a considerare questi tesori, anche dal nostro moderno punto di vista, come pura esibizione di potere sarebbe però limitativo.
TALISMANI
Scrive Giancarlo Calza, uno dei curatori della mostra: «I gioielli regali… oltre alla valenza di talismani con funzione astrologica e protettiva, trasmettono una condizione di realtà ai confini del divino, anche se di un tipo diverso da quello dei sacerdoti e dei santi cui si è abituati in Europa». Lo sottolinea, in un altro saggio introduttivo, il curatore della mostra Amin Jaffer: «I gioielli in India non sono meri ornamenti: per gli induisti ogni gemma è densa di significato, riflette uno scopo cosmico o richiama un oroscopo propizio…
Gioiello – talismano per eccellenza è il navaratna, che riunisce le nove pietre considerate più importanti – diamante, perla, rubino, zaffiro, smeraldo, giacinto (zircone), topazio, occhio di gatto e corallo – ognuno corrispondente a un pianeta». Ciascuna, singola, parte del corpo, continua Jaffer, aveva un suo specifico ornamento. Della secolare maestria degli orafi, gli esempi più antichi arrivati a noi sono di epoca Moghul, con una produzione artistica che trasse incentivo dal mecenatismo degli imperatori. Omaggio sontuoso ai sovrani da parte di cortigiani e ambasciatori, le pietre furono protagoniste dei commerci di mercanti locali ed europei. E proprio l’intensificarsi dei rapporti con l’Europa prese a influenzare lo stile, la forma e le rappresentazioni dell’oreficeria indiana. Con l’avvento del colonialismo britannico tali influenze si accentuarono, divenendo ancora più evidenti a partire dal 1858, data che segnò la fine dell’impero e il suo dissolversi in regni e corti. Se maharaja, sultani, nawab guardavano a Occidente, l’interesse divenne presto reciproco. Afferma ancora Jaffer «Questa predilezione per il gusto europeo fu ricambiata, agli inizi del XX secolo, con un crescente interesse dei più importanti gioiellieri europei nei confronti della produzione indiana tradizionale che, con montature d’oro e pietre di diversi colori, offrì una visione tanto innovativa quanto positiva negli anni successivi alla fine della prima guerra mondiale».
LE SEZIONI
Sei le sezioni della mostra per un totale di duecento e settanta pezzi: Il Tesoro dei Moghul, gemme e gioielli dinastici; Oggetti di giada e di cristallo di rocca, Oggetti in oro smaltato, Simboli di regalità e oggetti preziosi, Cartier e i grandi gioiellieri europei, Creazioni contemporanee.
Sono senza alcun dubbio le opere delle prime tre a esercitare il maggior fascino su chi compie il viaggio. Ad esempio il terminale del trono di Tipu Sultan, una testa di tigre in oro tempestata di gemme; la scatola magica in oro, sempre di Tipu Sultan; il ciondolo costituito da una perla dentro un castone di oro, diamanti, zaffiri, rubini, smeraldi, vetro, smalto e lacca, alto poco più di sei centimetri e largo cinque; il diffusore per l’acqua di rose, il portapenne e calamaio, la coppa da vino di Jahangir, gli oggetti a smalto verde con gemme incastonate; gli scacciamosche e i grattaschiena in oro, diamanti, rubini e smeraldi; l’infinita varietà di anelli, collari, pendenti, ciotole, contenitori, pugnali; la spada con l’elsa in giada, oro e cristallo di rocca; le pedine di un gioco di scacchi del ’700, in oro, diamanti, rubini smeraldi. Emilio Salgari, seduto al bar di un tavolino davanti al mare di Venezia dopo aver visto tali meraviglie, avrebbe preso carta e penna per scrivere un romanzo. Che poteva cominciare così: «Babar la Tigre, in sella a un destriero dalle ricchissime bardature, impugnò la scimitarra di acciaio e diamanti, calando un formidabile fendente sul turcomanno pronto a tagliargli la gola».

 

Dov’è finito il Ko i Noor?

Panipat, India settentrionale. Il 21 aprile 1526, Zahir al Din Muhammad detto Babar (la Tigre), discendente di Gengis Khan e Tamerlano, nato a Fergana, nell’Uzbekistan, chiude qui la sua campagna di conquista. Negli anni precedenti aveva sottomesso Afghanistan e Pakistan. Le sue modeste truppe sconfiggono in battaglia l’armata del sultano Ibrahim Lodhl. Fine dei sultanati, inizio dell’impero Moghul. Prima dello scontro, Babar aveva inviato il figlio Humayun ad Agra, per mettere il Tesoro del sultano al riparo dai saccheggi. Gioiello tra i gioielli è il Ko i Noor, la Montagna di luce, il diamante più famoso del mondo, ottocento carati. A consegnarlo a Humayun è la vedova di Ibrahim, grata di aver ricevuto protezione da violenze e rappresaglie. La Tigre esala l’ultimo ruggito quattro anni dopo. Gli succede Humayun, il quale, seguendo la tradizione, deve delegare al fratellastro Kamran Mirza e ai fratelli minori Askari e Hindal Mirza alcune regioni importanti. I tre, non solo si guarderanno bene dal soccorrerlo quando verrà due volte piegato dagli eserciti del generale afghano ‘golpista’ Sher Shah Suri, ma gli negano rifugio a Lahore e tentano di farlo prigioniero. Humayun fugge in Persia, costretto però a lasciare in un accampamento di Kandahar il figlioletto Jaluddin, il futuro imperatore Akbar. Kamran lo cattura, decidendo però di risparmiargli la vita. La corte persiana di Shah Tahmasp accoglie Humayun con tutti gli onori. La sua indole, più incline alle arti e alla religione che alla guerra, troverà linfa generosa ad alimentarla. Riconquistato il suo regno nel 1555, il sovrano sostituirà addirittura con la lingua farsi il chagatai, la parlata originaria dei Moghul. Il Ko i Noor resterà in Persia, dono di amicizia a Tahmasp, per tornare ai moghul durante il regno di Aurangzeb, nella seconda metà del ’700. Himyaun regna soltanto quattro mesi.
Il 24 gennaio del 1556, mentre abbandona la biblioteca reale per recarsi alla Preghiera, inciampa nella veste e muore cadendo delle scalinate. Sul trono sale, appena tredicenne, Jaluddin, con il nome di Akbar. Vi resterà fino al 1605. Nei cinquant’anni di governo, Akbar resiste alle invasioni nemiche, nel 1558 sposta la capitale da Delhi ad Agra; nel 1571 costruisce a Sikri la città imperiale di Fathepur (Città della Vittoria), dove si trasferisce con tutto il seguito. Pur avendo ereditato dal padre un profondo interesse per innumerevoli fedi, dagli shiiti agli hindu, dai dervisci agli zoroastriani, ciò non impedisce a Jaluddin di compiere grandi imprese militari.
Lascerà al suo successore, il figlio Jahangir, il controllo di quasi tutte le regioni dell’India, completato in seguito da Aurangzeb. E proprio Aurangzeb, rigido fautore del fondamentalismo islamico, venendo meno al proclama di Akbar, secondo il quale le etnie dovevano godere di parità, segnerà l’inizio del disfacimento Moghul. Il colpo di grazia all’unità viene, nel 1739, dalla breve ma ferale invasione per mano dello shah di Persia Nadir, che saccheggia Delhi portandosi via il Tesoro imperiale, Ko i Noor compreso. L’impero prende a sgretolarsi in regni e corti di sultani, maharaja, nawab.
Nel 1757, Robert Clive piega in battaglia, a Plassey, il nawab Sirajud din Daulah e segna di fatto l’inizio della dominazione britannica. Identica sorte tocca a Tipu Sultan, ai sikh del Punjab, al regno dell’Awadh. Nel 1818 l’India è praticamente in mano all’Inghilterra. Il 1857 vede la rivolta dei sepoy, i soldati indiani in forza alla Compagnia Inglese delle Indie Orientali, e il 1858 la deposizione dell’ultimo Moghul, Bahadur Shah II, che morirà in esilio a Rangoon, Birmania, nel 1862. La corona di Londra, adesso, è padrona dell’India, la regina Vittoria ne è l’imperatrice. Lo studioso francese François Bernier, dal 1666 al 1669 si mise in viaggio nelle terre dei Moghul, ottenendo di essere ricevuto da Aurangzeb.
Di quell’incontro dà cronaca in Viaggio negli Stati del Gran Mogol (Ibis edizioni). «Il sovrano presenziava dal suo trono posto sul fondo della grande sala dell’am khas (la sala delle udienze private, ndr) e indossava una magnifica veste di raso bianco con piccolissimi fiori, impreziosita con fini ricami di oro e di seta; il turbante era di tela d’oro, con una spilla a ventaglio con alla base dei diamanti di dimensioni e valore straordinari e un grande topazio orientale, di certo unico al mondo, che mandava lampi come un sole in miniatura; dal collo fino allo stomaco, così come certi indù in questo paese portano il proprio grosso rosario, egli portava una collana di grosse perle. Il trono era sostenuto da sei grossi piedi che mi hanno detto essere di oro massiccio, tempestati di rubini, di smeraldi e di diamanti».
Con il declino e la fine dell’impero verrebbe da pensare al tramonto anche di una forma d’arte che ha saputo raggiungere livelli di maestra e raffinatezza altissimi. Non è così secondo Gian Carlo Calza, uno dei curatori della mostra che poco oltre viene raccontata «Nelle corti dei vari stati autonomi, a volta vasti come e più di quelli europei, si formò un gusto nuovo e più confacente alle tradizioni locali, ma pur sempre ispirato allo splendore dei grandi Moghul». E il Ko i Noor dov’è finito? Dal 1853 brilla di accecante luce propria sulla corona della regina d’Inghilterra.

 

Gloria e decandenza, Babar la Tigre e l’Impero

Duplice il legame di Venezia con l’impero dei Moghul. La Serenissima fu la prima importatrice di diamanti in Europa, attività che conservò per oltre un millennio, estendendola progressivamente al commercio e alla lavorazione delle pietre preziose. All’ombra del campanile di San Marco nacque, nel 1638, una figura davvero singolare, quella di Niccolò Mannucci. Gli italiani in India, soprattutto nel XVII e XVIII secolo, erano rappresentati da uno stuolo di «cani sciolti» per nulla interessati a esercitare controlli territoriali o sui flussi commerciali. Tra loro si contavano soprattutto mercanti che acquistavano merci pregiate per rivenderle alle corti di Firenze o di Milano, artigiani assai ricercati perché di grande abilità, avventurieri, viaggiatori per dovere o per piacere.
Persino i missionari lavoravano «in proprio», e solo di rado dovevano rispondere di ciò che facevano allo Stato Pontificio. Mannucci fu di certo il più sciolto dei cani sciolti. Appena tredicenne si imbarca da Venezia verso il Vicino Oriente al seguito di un nobile inglese, e con lui, nel 1656, raggiunge il porto di Surat, in India. Durante il tragitto Agra – Delhi, il lord pensa bene di passare a miglior vita, lasciando in braghe di tela Niccolò. La sua biografia annota il mestiere di medico, militare, consigliere e, soprattutto capacità non comuni in campo diplomatico. Grazie alle sue doti di mediatore ricompone dispute tra principi, uomini di fede, occidentali di varia provenienza.
Nel corso della guerra per la successione tra i figli di Shah Jahan dopo la morte del padre, nel 1666, Mannucci riesce a tessere le trame di un accordo difficile e non privo di rischi. Nel 1683 è a Goa, enclave portoghese sotto minaccia degli eserciti di Sambaji, figlio di Sivaji, maharaja di Kolhapur. Il veneziano interviene e risolve la pericolosa situazione, così bene da meritarsi l’onorificenza dell’Ordine di Santiago, conferitagli il 29 gennaio del 1684. Due anni dopo, deciso a non tornare mai più in Laguna, Niccolò sposa la vedova Elizabeth Hartley, si ritira a vita privata e inizia a dettare le pagine della sua Storia do Mogor a copisti francesi, italiani e portoghesi, che la riporteranno ciascuno nella propria lingua. Quando, è il 1706, Elizabeth muore, Mannucci si trasferisce a Pondichérry. Morirà in una località non lontana dall’attuale Chennai, capitale dello stato federato del Tamil Nadu.
La Storia do Mogor, cinque volumi, rappresenta un eccezionale documento in cui vengono descritte usanze e costumi, religioni, suddivisioni in caste, economia dell’impero; la successione dei sovrani da Tamerlano in poi e le vicende personali dell’autore in mezzo secolo di vita dall’altro capo del mondo, non solo in senso geografico. Parte dell’opera si può leggere in formato pdf e in lingua inglese andando al link archive.org/details/storiadomogororm01manuuoft.
Una versione cartacea in tedesco è reperibile su Amazon, e sempre su Amazon in lingua inglese da varie case editrici. Non esiste in commercio la versione originale italiana.

Prima il palazzo e poi la mostra

Il percorso piacevolmente obbligato per arrivare alla soglia dei Tesori passa attraverso gli esterni e gli interni di Palazzo Ducale. Dopo aver ammirato le nobili architetture del cortile e delle logge, si entra nelle sale dove è passata molta storia di Venezia: della Quarantia Civil Vecchia, del Guariento, del Maggior Consiglio, del Magistrato alle Leggi, del Consiglio dei Dieci, della Bussola, le stanze del Doge… Le sale dell’Armeria ospitano il Museo delle Armi, documentato dal XIV secolo. Altra interessante porzione del palazzo sono le prigioni, con una prospettiva molto particolare del Ponte dei Sospiri. Completano la visita gli Itinerari Segreti, che comprendono la Sala della Tortura e la prima e seconda cella in cui fu detenuto l’antesignano dei playboy Giacomo Casanova.

La mostra

Tesori dei Moghul e dei Maharaja, dalla collezione privata Al Thani, Palazzo Ducale, Venezia, fino al 3 gennaio 2018, palazzoducale.visitmuve.it. Numero verde per le prenotazioni 848082000. La mostra è visitabile anche con il biglietto cumulativo Musei di piazza San Marco. Consigliato l’acquisto del catalogo edito da Skira, 60 euro. Le circa quattrocento pagine sono illustrate dalle immagini di tutti i pezzi della mostra, ciascuna affiancata dalla riproduzione di stampe, dipinti e fotografie delle varie epoche. I saggi che occupano la prima parte del volume, una quarantina di pagine inquadrano la storia dell’impero Moghul e danno conto, in modo chiaro e fruibile, di simbologie, riti, significati dell’arte dell’oreficeria nella cultura religiosa indiana.