Natalina Maestri, nata a Cervarolo di Villa Minozzo l’8 dicembre 1931, e Mauro Monti, nato anche a lui a Cervarolo, il primo febbraio 1930, sono sposati dal 1956. Nel 1944 si conoscevano appena, avevano rispettivamente tredici e quattordici anni. Le loro vite si sono intrecciate dopo la guerra. Hanno avuto due figli (uno è morto in un incidente) e una figlia. Uno dei nipoti, a scuola, ha fatto una tesina con i ricordi della nonna, il racconto dei giorni che hanno cambiato la vita di Cervarolo. Ventiquattro morti; tra loro, il padre di Natalina, Sebastiano.

Natalina. Ci sono anche io la mattina del 21 marzo sull’aia di Cervarolo. La mamma mi tiene in disparte, a qualche metro. Ma è come fossi anche io davanti ai corpi bruciati con la benzina e le fascine perché ho sentito mia mamma e le altre donne urlare come non posso dimenticare. Gli uomini venuti dagli altri paesi stanno inchiodando le assi per fare le bare. Mia mamma, quando vede mio padre dove lo aveva lasciato la sera prima, ma per terra, ucciso e color del carbone, lancia un grido acuto e corre da me, mi abbraccia senza dire nulla e io capisco. Capisco quello che già so. Li hanno uccisi con i colpi di mitra che abbiamo sentito mentre ci allontanavamo dal paese che era già stato incendiato. Mentre camminavamo nella poca neve di marzo, ci eravamo fermate voltandoci verso il nostro Cervarolo che stava morendo. C’era stato un attimo di silenzio assoluto, ci eravamo come strette l’una all’altra, poi erano ripresi i pianti e le grida. Gli uomini del paese non ci sono più. Il giorno prima avevano mentito. Non era vero che volevano portarli in Germania a lavorare. Volevano assassinarli e basta. La mamma, io, noi ci avevamo creduto perché non si può immaginare, prima che accada, che delle persone che non hanno fatto niente vengano uccise così. Quando, la mattina del 20 marzo 1944, iniziano a prendere gli uomini e a portarli sull’aia, noi andiamo nella grande casa che sta proprio lì davanti, quella di Battista Alberghi. È lì, dentro quella casa, che ci convinciamo, o vogliamo convincerci, che li porteranno in Germania. I tedeschi e i fascisti ci dicono di prepararli per il viaggio. E noi lavoriamo a preparare i fagotti con quel po’ che troviamo nelle nostre case. Il formaggio, il pane, qualche salume ancora fresco, le cose per coprirsi, maglie, calzerotti. E prepariamo i fagotti come si faceva allora, ripiegando e legando i quattro angoli di un panno grande. Lo ricordo bene mio padre con il suo fagotto, seduto con gli altri come in circolo, su una fila unica, le spalle al muro. Io non so se prima di ucciderli li hanno fatti alzare, ma ho sempre sperato di sì, perché penso sia meglio morire in piedi che seduti. Era tutto cominciato domenica 19 marzo, giorno di san Giuseppe. La mattina il nostro parroco, don Battista Pigozzi, ci avverte che stanno per arrivare i fascisti e i tedeschi. «Meglio se gli uomini vanno a nascondersi in montagna», dice. Del parroco i paesani si fidano e in pochissimo tempo gli uomini, esclusi quelli più anziani, spariscono da Cervarolo.

Mauro. I fascisti e i tedeschi, verso le undici, attraversano la nostra frazione, Case Pelati. Sono a piedi, in file ordinate. Non si fermano, continuano verso Cervarolo, nemmeno un chilometro da noi. Li vediamo da lontano muoversi per le stradine del paese e dopo un po’, forse un paio d’ore, andarsene dall’altra strada, quella che porta a Gazzano.

Natalina. A metà giornata i soldati arrivano davvero. Sono soprattutto fascisti, sorpresi di trovare nelle case solo vecchi, donne e bambini. È in quelle poche ore che scatta la trappola che segnerà per sempre la storia e la vita di ciascuno di noi e del nostro paese. I fascisti dicono che non c’è da preoccuparsi, che possiamo far tornare tutti, non succederà niente. Sento con le mie orecchie queste parole, non le posso proprio dimenticare. Nel pomeriggio il passaparola arriva nei nascondigli, in montagna, e a sera tutti tornano nelle proprie case, al caldo. Io sono sola con il babbo e la mamma. Le altre tre sorelle, più grandi di me, sono a servizio a Genova e in Toscana. I tedeschi arrivano appena fa giorno, ce ne accorgiamo dai rumori diversi dal solito che attraversano il paese. Gli ordini strillati, gli scarponi che battono sui sassi delle nostre stradine, le grida di allarme delle donne.La prima reazione del babbo è nascondersi in soffitta perché dal paese non si può più uscire. Da quello che riusciamo a vedere da dietro gli scuri delle finestre, Cervarolo è praticamente circondato, non si può né entrare né uscire. La mamma dice al babbo che nascondersi è la cosa più pericolosa che possa fare. «Se ti trovano in soffitta chissà cosa pensano, ti uccidono subito», gli dice. Il babbo le dà retta e così restiamo chiusi in casa senza far nulla, aspettando che siano i tedeschi a decidere di noi. Quando arrivano sono quasi le nove, forse siamo tra le ultime case, se non l’ultima. Abbattono la porta, così almeno ho sempre detto a me stessa perché non ricordo uno di noi che è andato ad aprirla. Entrano senza che nessuno abbia aperto, girano per le stanze, prendono senza chiedere tutto quello che pensano gli possa servire. Tante volte ho cercato di ricordare quanti fossero, che faccia avessero, cosa abbiano detto i soldati che hanno violato la nostra casa e portato via mio padre. Ma non ci sono mai riuscita. Con il passare degli anni mi sono convinta che una bambina di tredici anni resta come annichilita di fronte a una cosa del genere. Come se la mente non registrasse niente o cancellasse quello che ha visto. La mamma e io restiamo sole in casa. Non seguiamo il babbo che se ne va in mezzo ai soldati. E cerchiamo di scappare. La mamma prima guarda fuori, che non ci sia nessuno. Poi si copre più che può, copre me, mi prende per mano e ce ne andiamo rasente ai muri delle case verso giù, verso la strada che porta a Villa Minozzo. Una delle ultime case del paese, in quella direzione, è quella dei Costi. Sulla porta di casa ci sono i due uomini della famiglia, Ennio Costi e suo figlio Lino. Uccisi, il sangue cola dai gradini. La mamma cerca di non farmi vedere, ma io ho già visto, mi lascio coprire gli occhi, continuiamo a camminare verso valle, ma la strada è chiusa da una corda, dei soldati con i mitra sorvegliano che nessuno lasci il paese. Con gesti secchi ed espliciti ci dicono di tornare indietro, di andare a casa. Torniamo su senza passare nuovamente di fronte alla porta dei Costi e andiamo sull’aia, nella casa che è di fronte e dove prepareremo fagotti che non serviranno a nessuno.

Mauro. A Case Pelati non sappiamo niente di quello che è successo durante il giorno. Né di chi è stato già ucciso, né dell’aia. Abbiamo solo sentito gli spari della mattina, siamo rimasti chiusi in casa. La sera, verso le sei, i primi incendi. Stanno bruciando Cervarolo e noi non possiamo fare nulla. Le raffiche di mitra arrivano all’improvviso, brevi, in rapida sequenza. Sapremo poi che sono quelle che stanno uccidendo, a poche centinaia di metri da noi, i ventiquattro dell’aia. Dopo nemmeno un’ora i soldati ripercorrono in senso inverso la strada del giorno prima e alcuni si fermano dove siamo noi, al bar di Case Pelati. Uno di loro, un tedesco, mi dà il suo mitra e mi lascia lì fuori. Entra insieme agli altri e cominciano a bere, a ridere e scherzare, contenti di quello che hanno fatto. Li sento con le mie orecchie dire in italiano: «Questa volta li abbiamo presi davvero questi partigiani». Si ubriacano per bene e se ne vanno. Partigiani. Non ce n’era uno tra quelli che hanno ammazzato qui da noi, solo povera gente che non aveva fatto niente. I tedeschi ci portano con loro, a me, a mio padre, a mio zio Serafino e a un nostro amico. Ci fanno prendere i nostri buoi con i carri, li caricano di munizioni e ci fanno arrivare a casa Balocchi, quattro chilometri da qui. Un viaggio terribile. Il soldato che è la nostra guardia continua a dire: «Kaput, kaput». Vedo il terrore sul volto degli adulti e penso che stiamo per morire anche noi. Invece l’ufficiale ci dà addirittura dei soldi, un piccolo assegno, e ci rimanda a casa. Mio padre penso non lo abbia mai incassato e non so nemmeno dove sia finito, in casa non l’ho più trovato.

Natalina. La mamma e io, dopo il 20 marzo, non abbiamo più casa, è stata incendiata e dentro non c’è più nulla che possa servire a vivere. Andiamo a stare nella canonica. Le tre nipoti del parroco sono rimaste sole e noi le aiutiamo a tenere la terra, facciamo come fossimo le loro mezzadre. Il parroco è stato un eroe. Io non ho visto quello che è successo davanti alla chiesa. Ma in tanti hanno visto, hanno ascoltato il racconto delle nipoti e hanno raccontato. I fascisti e i tedeschi interrogano il prete in canonica, vogliono sapere da lui dove sono i partigiani, dove si nascondono. Don Pigozzi non sa o non vuole dire. Comunque risponde che non può andare contro la propria coscienza. I soldati insistono. Niente. Lo portano allora sul sagrato, lo fanno spogliare e stare lì, al freddo, nudo davanti ai suoi parrocchiani. Altri soldati portano dentro le tre nipoti, si sentono le loro urla, forse le violentano, non si è mai saputo con certezza. Il parroco scuote la testa, non risponde. Lo portano sull’aia, lo uccidono con gli altri. Sono state sicuramente le spie fasciste a scatenare l’inferno di Cervarolo. Qualche giorno prima un gruppetto di partigiani si era fermato a dormire in una casa del paese, per una sola notte. Qualcuno deve averlo raccontato ai tedeschi e ai fascisti perché quelli, appena arrivati, sono andati proprio in quella casa, al numero 14, a controllare se c’erano tracce del passaggio dei partigiani. Ma in paese di partigiani non ce n’era. Per quello che se ne sapeva solo il fratello di Ennio Costi, Vincenzo, era in montagna a combattere. Io, quello che è successo il 20 marzo 1944 l’ho portato e lo porterò sempre dentro di me. Non è stato un episodio, non è stato un incidente. È stata una crudele ingiustizia. Profonda, mai sanata. Per questo quando Italo Rovali, uno di noi e nostro avvocato, mi ha chiesto di andare a Verona, al processo, ci sono andata. So che la condanna di quel sergente non porta a nulla, ma almeno è scritto che lui e quelli come lui hanno commesso un crimine.

Natalina e Mauro vivono nella casa che è sempre stata della famiglia di lui, a Case Pelati. Da lì Cervarolo si può quasi toccare, è al di là di una piccola valle, con in mezzo il cocuzzolo con la chiesa davanti alla quale venne fatto spogliare don Battista Pigozzi. È da questa casa che Mauro ha visto le fiamme e udito le raffiche di mitra. Il processo per la strage di Cervarolo è confluito in quello per tutti gli eccidi commessi nella primavera 1944 sull’Appennino tosco-emiliano, celebrato dal tribunale militare di Verona e che ha avuto, tra i testimoni, anche Natalina. Il tribunale ha condannato all’ergastolo il sottotenente Fritz Olberg, comandante di plotone, e il sergente Wilhelm Karl Stark, comandante di squadra. Dopo la sentenza Fritz Olberg è morto e la Corte d’Appello ha confermato solo l’ergastolo per Wilhelm Karl Stark. Tutti e due facevano parte della terza compagnia del reparto esplorante della divisione corazzata della Luftwaffe Hermann Göring, l’unità che agì a Cervarolo, insieme ai fascisti della Guardia Nazionale Repubblicana.(Case Pelati, Reggio Emilia, 2012)