Di tutte le età, le razze, le personalità e gli umori -foderati nel riconoscibilissimo abitacolo giallo forte- i taxisti newyorkesi sono parte del Dna della città – come l’Empire State Building, i bagels con il cream cheese, i musical di Broadway, la Statua della libertà. Spesso il primo essere umano con cui un «forestiero» interagisce quando atterra a Kennedy, sbuca in strada dal magnifico atrio della Grand Central Station o dai meandri del Port Authority Bus Terminal, il taxista newyorkese «è» New York -nelle sue diversità, nella sua aneddotica, nella sua energia unica, nella sua vasta tolleranza e nella combinazione tra la spinta dell’avanzamento personale e quella verso la comunità che si crea dalla comunione e dagli attriti tra gli opposti più estremi.

ETERNI protagonisti di film, barzellette, cronaca tabloid e alta letteratura, al punto di essersi persino conquistati una sitcom ad hoc (Taxi -in onda dal 1978 al 1983, con un totale di 18 Emmy) i taxisti sono un’altra categoria su cui l’effetto delle gig economy si sta facendo sentire in modo devastante. L’alluvione di veicoli Uber, Lyft e affini che affollano le strade della città, parcheggiano costantemente in seconda fila e congestionano i già congestionatissimi ponti d’accesso a Manhattan non ha solo creato problemi di traffico, ma un effetto di Far West economico micidiale per gli autisti di taxi e delle car service, che hanno precisi regolamenti di categoria e tariffario.
Dall’inizio del 2018 a oggi, otto taxisti si sono infatti tolti la vita, un dato che ha portato il taxi commissioner di New York, Meera Joshi, a parlare di una vera e propria «epidemia» di suicidi e a far sì che l’Assemblea comunale abbia promesso di prendere dei provvedimenti. Da agosto New York è diventata la prima metropoli americana ad aver messo un tetto sul numero di auto tipo-Uber, dopo che dai novantasette mila autisti autorizzati, nel 1999, si è arrivati ai centottantamila di quest’anno. Fino al 2016, il novantun percento della categoria era composto da immigranti.

LE STORIE dei suicidi si assomigliano un po’ tutte Roy Kim era un coreano di cinquantotto anni, che viveva a Queens, «guidava» da più di quattro anni ed era riuscito finalmente a comprarsi un medallion -l’ambita licenza con cui diventi imprenditore di te stesso, invece di affittare il taxi a tempo. Emessi dalla città in numero limitato, fino a qualche anno fa i medallion potevano raggiungere costi pari a un milione di dollari.

OGGI – grazie all’inflazione create da Uber e Lyft- il valore di un medallion è sceso fino a duecentomila dollari. Prima di impiccarsi con una cintura alla porta della sua camera da letto, Roy Kim si era lamentato di non avere abbastanza clienti, di dover lavorare notte e giorno.
Come lui il rumeno Nicanor Ochisor e il burmese Kenny Chow, prima di uccidersi avevano detto agli amici o ai famigliari che erano preoccupati di non riuscire a pagare il debito sulla licenza. Il febbraio scorso, un autista di car service si è sparato davanti al municipio dopo aver dato sfogo alla sua disperazione su Facebook, scrivendo che, dopo l’arrivo di Uber, doveva guidare oltre cento ore alla settimana.
Nell’era pre-Uber, e cioè prima del 2010, lavorando nove ore, un taxista riusciva a guadagnare anche duecento dollari al giorno, cifra con cui si poteva pensare di mantenere una famiglia. Adesso si parla di cinquanta, sessanta dollari, che nella New York di oggi significa far fatica a pagarsi un miniappartamento.

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